Sono trascorsi 20 anni da quel colpo di pistola alla nuca che il 15 settembre del 1993, nel giorno del suo 56mo compleanno, aveva fermato le speranze del popolare quartiere di Brancaccio, in una Palermo ancora disorientata dopo la barbarie stragista e la fine di un progetto pastorale ed educativo che avrebbe in seguito fatto scuola. Padre Pino Puglisi, sacerdote diocesano della chiesa palermitana veniva ucciso da ‘Cosa nostra’, dopo aver raccolto intorno a sé le energie migliori, ragazzi e ragazze, di un quartiere che contava 12 mila abitanti ma ciononostante non aveva una scuola media, un centro sportivo, un punto di ritrovo per i giovani che non fosse la strada. Questo ai boss non piaceva, Don Pino toglieva dall’influenza malavitosa delle “leve fresche” che ne voleva fare dei perfetti schiavi.
Mantenere alta la memoria di Don Pino Puglisi, dal 25 maggio scorso proclamato da Papa Francesco ‘beato’ in quanto “martire della fede e della carità educativa”, è l’obiettivo della settimana di eventi che ricordano l’impegno e la testimonianza lasciata alla comunità di Brancaccio. Il programma degli eventi è stato presentato presso l’istituto comprensivo statale ”Padre Pino Puglisi”, plesso inaugurato il 13 gennaio del 2000, tanto voluto dal sacerdote per combattere i fenomeni di microcriminalità e dispersione scolastica.
Don Puglisi la sera del 15 settembre 1993 scese dall’auto, come del resto tutte le sere, sapeva che qualcosa poteva accadergli. Ad attenderlo quella volta c’era il suo assassino che lo finì senza pietà. Sulla testa di Don Pino il verdetto di Michele Greco, il “papà della mafia”. 3P, così come veniva chiamato dai suoi studenti, non cercava di convertire chi la via della malavita l’aveva abbracciata senza speranze ma era consapevole che sarebbe stato inutile, piuttosto recuperare i piccoli e i giovani che ancora potevano essere sottratti alla rete della delinquenza, spiegando loro che si poteva ottenere rispetto anche senza essere dei criminali, semplicemente seguendo dei valori e degli ideali forti e puliti.
A distanza di vent’anni sono ancora nitidi i ricordi di quelli che furono i suoi collaboratori storici, il nocciolo che provò a resistere anche dopo la morte del Beato Puglisi.
Dei collaboratori storici di Don Pino, solo in pochi hanno continuato il loro impegno nel quartiere. ”Abbiamo provato un senso di smarrimento e paura alla sua morte, ciascuno comunque ha scelto di portare avanti col proprio lavoro la testimonianza lasciata da padre 3P”, dice Pippo Sicari, che di quel nucleo faceva parte e che oggi si divide tra il lavoro di medico e l’attività di presidente dell’associazione ‘La rosa gialla’, frutto floreale preferito di padre Puglisi.
”Negli anni ci sono state luci, ombre e false luci. Quando ho conosciuto padre Puglisi – spiega Sicari- lavoravo come guardia medica, ero sempre in giro e avevo pochissimo tempo. Eppure don Pino insisteva nel dirmi che insieme a mia moglie mi sarei dovuto occupare delle famiglie del quartiere. Mi pareva impossibile, non avevo tempo, e poi dopo il suo omicidio non sapevamo se stare ancora a Brancaccio. Superato lo shock, la decisione di restare ha motivato le nostre scelte future. Come l’associazione, che da 15 anni insegna ai ragazzi musica, prosa, ballo. Partiamo dal presupposto che chi rispetta le regole del teatro rispetta quelle della vita – spiega – andiamo avanti col 5 per mille e autofinanziandoci, ma oggi siamo in 137 nell’associazione”. ”Brancaccio – prosegue – è sempre stato un quartiere un po’ sordo, ma i ragazzi stanno cambiando: c’è chi si è innamorato della danza e viene da una famiglia di spacciatori, ma c’è anche tanta gente normale che ha scelto semplicemente di non girarsi dall’altra parte”.
Fabio Di Giuseppe, altro collaboratore del centro di accoglienza, oggi insegnante di religione, in quel 1993 abitava proprio accanto alla canonica. ”Il messaggio di padre 3P era semplice, ma di rottura. Ricordo che in sacrestia aveva un orologio con le lancette a terra e la scritta ‘Per Cristo a tempo pieno’, e infatti correva ad aiutare chiunque a qualunque ora del giorno e della notte e spesso, per questo motivo, era in ritardo agli appuntamenti. Per il centro di accoglienza aveva scelto di farsi aiutare dalle suore di Santa Caterina da Siena che hanno fatto dell’attenzione agli ultimi la loro vocazione, proprio perché fosse chiaro anche all’esterno il senso della sua azione pastorale”.
”Il contrario di quanto avvenne dopo la sua morte – spiega Di Giuseppe – prima a Brancaccio non voleva venire nessuno, poi ci fu l’arrembaggio, con i contributi a pioggia. Se la situazione nel quartiere è cambiata? Io sono un po’ critico su questo. Certo ci sono molte strutture che prima non c’erano, ma non credo che il messaggio di don Puglisi sia ancora entrato nel tessuto sociale del quartiere, e questo per l’assenza di un’azione sinergica tra diocesi, istituzioni, territorio. L’errore è stato quello di separare il centro Padre nostro dalla parrocchia: padre Puglisi faceva il contrario, la sua parrocchia era sempre aperta. Per lui liturgia, parola e carità procedevano insieme”.
“La prima volta che entrò in classe aveva uno scatolone vuoto sotto braccio. In silenzio, lo posò per terra. E mentre lo guardavamo, lo pestò con un piede. “Avete capito chi sono io?”, domandò. “Un rompiscatole”, concluse sorridendo. Ci spiegava che le orecchie grandi gli servivano ad ascoltare meglio, le mani grandi per accarezzare con più tenerezza, i piedi grandi per camminare veloce e soddisfare subito le richieste di aiuto. “E quella testa pelata?”, domandavamo impertinenti. E lui passandosi una mano sulla calvizie: “Per riflettere meglio la luce divina””. Era il 1978 e fino al 1983 Padre Pino Puglisi è stato l’insegnante di religione di Francesco Deliziosi, ora caporedattore del Giornale di Sicilia e biografo di Puglisi nella commissione diocesana per la beatificazione e che ci consegna questa sua testimonianza. Da allievo ad amico a collaboratore il passo è stato breve. Insieme alla moglie Maria è stato animatore delle tante attività di volontariato a Brancaccio.
“Era stonato, ma non rinunciava a cantare. Dava appuntamenti e arrivava puntualmente in ritardo. Mangiava scatolette, pur di sbrigarsi, e diceva “la benzina è il mio pane”, perché preferiva riempire il serbatoio della sua auto (una Fiat Uno rossa usata), piuttosto che il frigorifero. Era un prete senza conto in banca. Mi vengono tanti parallelismi, afferma Deliziosi, con le parole di papa Francesco: la Chiesa povera per i poveri, la gioia, la tenerezza. Si cercano modelli per i sacerdoti. Puglisi lo è. Accettò l’incarico a Brancaccio e mi disse: “Sono diventato il parroco del papa”, perché la casa di quel Michele Greco, capace di mediare tra le varie cosche ( da qui il soprannome de “Il Papa” della mafia), faceva parte della sua stessa parrocchia. Anche i suoi assassini erano stati battezzati lì.
“Sorrise davanti ai suoi assassini, diventati poi collaboratori di giustizia ripensando a lui ad iniziare da Salvatore Grigoli (“Il suo sorriso mi ha cambiato la vita. Quel sorriso puntato in faccia ha fatto di me un uomo nuovo. Devo tutto a lui, a don Puglisi e al suo sorriso”). Neppure l’autopsia e l’estrazione del proiettile, neppure la riesumazione per traslarlo in cattedrale, a vent’anni dalla morte, lo hanno cancellato.”
Pino Puglisi, il prete che fece tremare la mafia con un sorriso è anche il titolo che Francesco Deliziosi ha scelto per il libro uscito per Rizzoli in maggio con prefazione di Don Luigi Ciotti. Il suo miracolo? Proprio quello di aver testimoniato il Vangelo nella borgata di Brancaccio, facendo tremare un territorio a forte densità criminale. Nel libro il giornalista del Giornale di Sicilia, spiega come la vita di padre Puglisi è anche un pezzo della vita di Palermo e del nostro Paese: dalla sua parrocchia di periferia, il prete del Brancaccio si oppose senza sosta alla sopraffazione mafiosa e restituì speranza alla città costruendo spazi di cultura e formazione in quartieri abbandonati dallo Stato. Il ritratto di Deliziosi restituisce il coraggio di un uomo che rimase fedele alla sua missione fino alla morte, fino a diventare il simbolo di quei cittadini e preti di strada che ogni giorno si battono per la legalità.
Ma quale è la situazione oggi? ”Le cose da fare sono ancora molte perché questo è un territorio molto difficile” afferma M. Pia Avara vice-presidente del centro di accoglienza Padre nostro. “Certamente in tutti questi anni è cambiato molto. Oggi lavoriamo in sinergia con altre realtà come la scuola Puglisi, la chiesa e la circoscrizione per migliorare tanti aspetti del territorio. E’ cambiata anche la mentalità della gente sul piano della solidarietà reciproca e del rapporto che hanno con il nostro centro di accoglienza”.
Il ricordo di Sonia Alfano.“Un sacerdote che si è speso per il bene dei giovani di questa città, un uomo che ha messo la sua stessa vita in ballo, conoscendo perfettamente i rischi che correva. Don Pino Puglisi è ancora nei cuori di tutte le persone oneste di questo Paese. E a 20 anni di distanza dalla sua uccisione, siamo ancora qui a ringraziarlo per tutto quello che ha fatto”. Sonia Alfano, Presidente della Commissione Antimafia Europea e dell’Associazione Nazionale Familiari Vittime di Mafia, ricorda Don Pino Puglisi. “E’ la prima volta – sottolinea Sonia Alfano – che commemoriamo Don Puglisi beato. Un particolare che dimostra quanto indelebile sia il segno che ci ha lasciato”.