Cara Italia ti voglio raccontare una storia

 

Se il giornalista Paolo Brogi avesse intenzione di scrivere una seconda edizione di “Uomini e donne del Sud”, un libro inchiesta, lo ricordiamo, che descrive le storie di un mezzogiorno che vale, potrebbe prendere tranquillamente esempio dalla città dello stretto, Messina, e da un’iniziativa che mediaticamente è esplosa con il leitmotiv “Bisognerebbe bere un sorso di umanità 365 giorni l’anno”. Mediaticamente, appunto. Le radici, però, sono ben altre: più reali e più profonde. Ogni lunedì alla stazione succede qualcosa di magico. Lontano dal “ciuf ciuf” delle rotaie, in un angolo nascosto, tantissimi volontari servono cibo ai poveri.

Ma chi sono i poveri? I senzatetto? Non solo. I richiedenti asilo? Non solo. A far la fila per un pasto caldo ci sono messinesi, come me e voi. Segno vivo che la crisi sta colpendo tutti, indistintamente. Uomini separati, ragazze madri, bambini, anziani. La povertà, però, ahimè, ahinoi, non fa notizia oggigiorno, perché preferiamo vendere le finte rivoluzioni e i “miracoli all’italiana”. Un’inversione di tendenza l’ha inaugurata Il nuovo Papa che ha cercato di avviare un “nuovo corso” ricordando al suo gregge smarrito niente di più e niente di meno di quello che Gesù Cristo predicava a folle oceaniche, ovvero quello che in maniera cristiana è descritto come “l’amore agape” e in parole più dirette e meno astruse: amore disinteressato. Non quello a cui le cronache ci hanno abituato con titoli strappalacrime e acchiappa consensi. Ed è così che ormai ci siamo abituati ad applaudire, anche solo idealmente, l’ultimo prete che serve i poveri, l’ultima iniziativa del “caffè sospeso” e cose di una banalità disarmante, connaturate ad una società che si reputa e si autodefinisce molto spesso umana. Ma torniamo a noi. Torniamo alla nostra città. Messina ha molte facce e molte sfumature. Ci sono due tipi di povertà. Una la chiamo povertà visibile: è la povertà dei quartieri, delle baracche, dove ogni giorno si sfalda il filo precario dell’esistenza nel silenzio più assordante.

E’ una realtà che abbiamo fagocitato e dichiarato normale. Poi c’è la povertà non visibile. E’ figlia degli anni che stiamo vivendo. E’ figlia di una guerra che semina macerie diverse: famiglie monoreddito che devono pensare ai figli, anziani che vivono con somme risicate, divorziati che pagano l’affitto di un monolocale ma poi piangano davanti a tavole vuote. A tutti loro pensano gli angeli del lunedì, in questa catena di solidarietà splendida. A tutti loro, correggo il tiro, vorrebbero pensare gli angeli del lunedì. Ed è per questo che “Adotta una famiglia messinese” ha l’umile pretesa di diventare un appuntamento fisso e non a scadenze annuali. La sfida che i promotori e gli ideatori vogliono vincere è proprio questa.

Ci chiediamo se la città dello stretto è pronta, perché è facile criticare e aspettare che gli altri facciano qualcosa. Più difficile è rendersi conto che “gli altri siamo noi”. Cara Italia, per tonare al titolo che abbiamo scelto, ti ho voluto raccontare una storia che potrebbe dilagare, se solo volessimo, a macchia d’olio. Perché non adottare le periferie? Perché non sentire più spesso i preti di frontiera? Perché non rinunciare a quella che Josè Saramago chiamava “cecità di ciechi che vedono”?

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