C’era una volta la Primavera araba

A volte pensiamo di poter fermare il mondo spegnendo il televisore, di poter chiudere i battenti della Storia e rilassarci un momento nella calma di uno schermo opaco. Effettivamente oggi non ne abbiamo più bisogno, perché il mondo è cancellato direttamente e senza indugi da chi lo dovrebbe raccontare, dai nostri mezzi per conoscerlo e capirlo.

Qualche tempo fa’, fra la fine dell’inverno e lo sboccio dei primi fiori, un gruppo di giovani invasati a un mare di distanza da noi iniziò qualcosa che sembrava poter mettere in discussione ogni cosa nell’assetto politico mondiale, cominciarono la «Primavera araba» – come fu ribattezzata l’esplosione delle proteste nei Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente – nello scalpore e nell’interesse generale di un Occidente che voleva quasi trovare in esse la forza per una svolta radicale anche al suo interno. E oggi? Qual è la condizione di vita dei giovani che si sono ribellati alla tirannia e che – a differenza di molti loro fratelli – sono sopravvissuti alla repressione, da sempre la risposta più amata dai governi di ogni luogo? E dove sono i nostri telegiornali oggi? Non hanno più belle o drammatiche storie da raccontarci? Evidentemente no, e la memoria è un’aiutante maldestra se non ben allenata. Risultato: Tunisia, Egitto, Yemen, Siria, Libia, vaghi ricordi di un passato recente ma lontano anni-luce in un’Europa, in un’Italia allo sbando. E così i morti giornalieri in Siria, le proteste cruente in Egitto, la guerra civile yemenita, la costituente in Tunisia passano di soppiatto nei teleschermi, mentre la “nostra” guerra libica esce fuori ogni tanto per il suo risvolto economico tanto caro alla Lega Nord.

Ma la Storia continua – se giri su se stessa o vada effettivamente avanti è tutto da chiarire. Simbolo dell’ipocrisia occidentale quando si tratta di stilare documenti di condanna – il Consiglio di Sicurezza O.N.U. ha già da tempo in mano una risoluzione contro le repressioni siriane, che non mette ai voti per timore dell’annunciato veto russo – e della paura – europea come statunitense – nei confronti dell’Iran di Alì Khamenei, la Siria continua a sputare sangue e polvere da sparo, con l’ultimo terrificante assalto della polizia nelle moschee e negli ospedali di Hama – dove già durante gli anni ’80 le bombe di Assad senior provocarono un numero di morti compreso fra i 10 e gli 80mila – , dove venerdì 8 luglio sono scese in strada a protestare 450mila persone contro Bashar al-Assad, il suo monopartitismo, le leggi marziali ed il sangue del popolo che scorre da metà marzo e che ha provocato 1.600 morti e decine di migliaia di feriti. I fucili di regime provocano stavolta “solo” 16 vittime ed un centinaio di feriti, oltre che 200 arresti – secondo l’Osservatorio siriano per i diritti dell’Uomo sono 12mila dall’inizio delle proteste – , la quasi totalità ad Homs, terza città siriana, tutto questo mentre Amnesty International solleva il dubbio – più che fondato – di crimini contro l’umanità del regime durante la repressione.

Se l’inizio delle trattative siriane non avrà luogo – come annunciato dalle forze di opposizione – in uno stato di continua violenza statale, in stallo è la situazione egiziana, dove Mohammed Hoseyn Tantawi – Feldmaresciallo e ministro della Difesa egiziano dal 1991, dopo l’allontanamento del generale Abu Talib voluto da Hosni Mubarak – splendido esempio del principio democratico di rotazione delle cariche – ha ottenuto un controllo quasi personale del potere statale, e dove piazza Tahrir continua a riempirsi – 1 milione di persone hanno sfilato in corteo in questi giorni per le strade del Cairo – dei giovani che non accettano un regime pressoché invariato nelle sue alte cariche, funzionari dell’Interno e dell’Esercito in testa. Intanto l’Occidente continua a rifiutare un più che probabile successo alle elezioni di settembre dei Fratelli Musulmani, e continua a sbilanciarsi a favore dell’instaurazione di una pseudo-democrazia sotto la forma di una tutela militare che si è dimostrata fino ad oggi incapace delle riforme costituzionali e sociali promesse. La democrazia solo quando più ci conviene.

In attesa di notizie da una rivoluzione tunisina che pare essersi fermata appresso alle vicende giudiziarie del Principe spodestato – l’ironia della medesima situazione politica nelle due sponde del Mediterraneo – , da una promessa di riforme costituzionali nel Marocco di Mohammed VI, ed aspettando un nuovo sussulto in Libano, Giordania, Algeria, Arabia Saudita, Bahrain, Oman, Kuwait, Iraq, Gibuti e Mauritania, i nostri mass media si sono scordati ultimamente di raccontarci gli sviluppi della guerra civile in uno Yemen abbandonato dal “presidente” Saleh – in cura per le ferite riportate nell’attentato del 3 giugno, ma soprattutto per definire i termini del compromesso stabilito in aprile con il Consiglio di Cooperazione del Golfo presieduto dal saudita Abd Allah, per la transizione del Paese e la protezione personale contro la furia ribelle – , e sottoposto ad una sanguinosa lotta fra le forze dell’ordine leali al regime e le milizie ribelli sostenute dallo sceicco Sadek al-Ahmar – leader del partito progressista d’opposizione al-Islah – , e in cui non è improbabile un ruolo importante di Al-Qaeda – anche attraverso gruppi di miliziani molto vicini all’organizzazione, operanti principalmente nel sud dello Yemen – , che ha provocato quasi un migliaio di vittime civili dall’inizio delle proteste da febbraio fino ad oggi.

Nei Paesi arabi in rivolta si gioca il futuro della democrazia mondiale, che dipende necessariamente dalle capacità delle forze progressiste internazionali di sostenere – senza pretese di ruolo dominante ed ottiche universalistiche – il cammino di un popolo mediorientale e nordafricano che cerca di resistere alle pressioni dei fondamentalismi occidentale da un lato ed islamico dall’altro. La prima cosa da fare in questo senso per le presunte “democrazie occidentali” – ed un passo importante (contro tutti gli altri suoi “errori”) è stato fatto da Barack Obama – è riconoscere oggi lo Stato palestinese, rompendo con la terribile tradizione di copertura, giustificazione e legittimazione delle violenze e degli abusi israeliani.