‘Le mafie non sono mai state un fenomeno estraneo al contesto sociale, né tantomeno marginale o patologico. Hanno sempre tratto la loro forza dalla rete di rapporti e di relazioni che hanno saputo creare attorno ai loro sistemi di potere’, questo è quanto si legge all’interno della prefazione, a cura di Antonio Nicaso, del testo di Salvo Ognibene “L’eucaristia mafiosa”, Navarra editore.
Un testo provocatorio e al tempo stesso analitico, un’analisi attenta e intelligente sul rapporto ancestrale esistente tra le mafie e la Chiesa, quella, immeritatamente, con la C maiuscola. Con la precisione analitica tipica della corretta ricerca storica, e la sollecitazione di dubbi e interrogativi spesso retorici, il testo mescola storia, documentazione ed esperienza diretta sul campo. Una produzione che va ad arricchire la già corposa bibliografia sull’argomento: «Se nella prima parte del libro si trattano temi in chiave aggiornata, già trattati da altri esperti come Antonio Nicaso, Isaia Sales o Alessandra Dino, nella seconda parte vi è un’indagine sul campo che va a recuperare, a chiedere e a trovare le voci di quei preti che della propria religione hanno fatto uno strumento della lotta alle mafie», spiega l’autore. «Questo libro affronta, al di là della tematica, le storie dei parroci che hanno deciso di uscire fuori dalla sacrestia e affrontare ognuno a modo proprio l’argomento».
La storia, dunque, costruita e narrata sulle storie. Dall’arcivescovo di Monreale (Pa) Michele Pennisi, dal 2008 sotto scorta per le ripetute minacce scatenatesi dopo il suo rifiuto di celebrare i funerali del boss mafioso Daniele Emmanuello; a Don Pino Strangio, priore del santuario di Polsi (Rc), località di difficile gestione per una presenza di elementi rappresentativi della ‘ndrangheta; per passare attraverso Suor Carolina Iavazzo, la sua testimonianza e il suo percorso accanto a padre Pino Puglisi. La lista di nomi e vicende potrebbe continuare, ma ciò che conta è il messaggio, l’importanza dell’informazione, quella corretta, quella fatta di numeri, date e nomi.
Un’occasione per ampliare un discorso del quale non si parla mai abbastanza, per porsi e porre domande le cui risposte devono avere un seguito. Interrogativi che portano ad osservazioni che trasformano le supposizioni in certezze. Chiedersi come mai le organizzazioni di stampo mafioso siano nate proprio nelle quattro regioni più religiose d’Italia. Interrogarsi sul perché, ad oggi, la Chiesa non si sia ancora espressa dichiaratamente in forma ufficiale contro il fenomeno mafioso. Perché esistano due realtà: da una parte Uomini di Chiesa come monsignor Montenegro, vescovo di Agrigento rifiutatosi di celebrare i funerali di Giuseppe Lo Mascolo, accusato di essere il boss di Cosa Nostra a Siculiana (Agrigento); e dall’altra uomini come don Antonio Scordo, ex parroco di San Martino di Taurianova (Rc), condannato a un anno di reclusione per falsa testimonianza nel processo per stupro di Anna Maria Scarfò e, nonostante questo, promosso per ben due volte all’interno della diocesi di Palmi (Rc).
Domande e risposte che portano a una conclusione che vede Chiesa e mafia in un rapporto di connivenze fatto anche di silenzi. Una Chiesa che tacendo ha costituito terreno fertile a una mafia che ha sfruttato la maggiore e più influente istituzione della storia, per crearsi e consolidare un’identità incastonata nella tradizione. I legami clientelari, troppo spesso palesati in rapporti familiari. Il manifesto disinteresse per le ‘cose di mafia’. Tutti elementi che hanno contemporaneamente dato libertà di movimento e confermato agli occhi dei fedeli l’idea del silenzio-assenso. Una Chiesa raramente schieratasi, quasi a confermare una propria silenziosa accondiscendenza. «La regola base che vuole il mafioso fuori dalla chiesa, espressa con questa chiarezza, è arrivata da pochi anni. Anzi prima si procedeva su una sorta di collateralismo che era legato anche a una certa vicinanza della mafia con la DC, e a una sopportazione, a un disinteresse per ciò che succedeva nella riunioni mafiose e di quello che facevano questi ‘signori’. D’altronde è di pochi anni fa l’espressione di Morosini: ‘quello che succede, a noi interessa poco’», afferma Padre Felice Scalìa, gesuita da sempre attivo nella lotta alle mafie. «C’era sempre l’atteggiamento che Dio perdona tutti, e quindi anche il mafioso è qualcuno da accogliere. Ma non si rendevano conto del messaggio che passava alla gente. Abbiamo avuto a Messina qualche anno fa il caso di Giostra – continua Padre Scalìa in riferimento al solenne funerale del boss del viale Giostra Mulè (ndr)- ma l’ingenuità dei preti di allora non fece rendere loro conto che permettere quel funerale solenne, con tutto quello che seguì fuori controllo del parroco, dava il messaggio che il mafioso era come una persona ‘di successo’ ». « Anche nella Chiesa, come in tutte le cose, ci sono i buoni e i cattivi. Non bisogna dunque stupirsi. Il fatto che ci siano eventi come quello di Mulè, come quello di Santò Sfameni, non deve sorprendere. Il problema è che bisogna prendere le distanze da tutto questo. E la Chiesa ancora a Messina credo che non lo abbia fatto in maniera chiara», continua il giornalista Nuccio Anselmo.
E lo stesso problema ancestrale di una mancata presa di posizione da parte della Chiesa Romana nei confronti del fenomeno mafioso, è proprio la questione che viene sollevata da quei tanti Uomini di Chiesa che oggi si alzano in piedi, escono dall’altare e chiedono una guida concreta da seguire, oltre quella del Vangelo. «La Chiesa va educata al rapporto con il mondo esterno. E i preti, soprattutto quelli che non vivono in zone di mafia, devono conoscere quello che accade. Con questa diffusione a tappeto della mafia in campo nazionale forse stanno cominciando a rendersene conto. E’ una realtà molto complessa, che esigerebbe molta più attenzione soprattutto oggi nella costituzione della nuove confraternite, nella gestione delle feste, anche le più solenni», continua Padre Felice Scalìa, sottolineando quanto sia importante, ad oggi, una presa di posizione coerente e, soprattutto, concreta da parte della Chiesa. Quella con la C maiuscola, quella che deve abbandonare il silenzio per ergersi a guida consapevole e diretta di una comunità che è essa stessa guida per i fedeli.
Ma i fatti parlano, e ancora di più, i non fatti, quelli sì che urlano. L’assenza, il silenzio, la negazione che diventa abnegazione. Fino all’accettazione. Un’accettazione che trova conferma nella supposta, e troppo spesso certa, manifesta generosità della mafia nei confronti della Chiesa. «Se così fosse significa che la Chiesa è diventata puttana, si fa comprare, e questo è terribile. Che la Chiesa possa essere meretrix lo dicevano pure i santi padri. Ma non deve dimenticare che, come istituzione di Cristo e non dell’uomo, deve essere santa, quindi separata dalla mentalità di questo mondo. E se non è chiamata ad allontanarsi da questa società, dove un Bagarella può dire ‘sono io Dio’, ditemi voi a cosa è chiamata. Denaro ne è girato troppo per comprarsi la Chiesa, ma spero che Cristo non lo abbiano comprato». Alle parole di Padre Scalìa, non ci sentiamo di aggiungere proprio nient’altro.
Ulteriori approfondimenti al progetto editoriali sono raggiungibili al seguente indirizzo http://www.eucaristiamafiosa.it/vescovi-calabresi-la-ndrangheta-non-e-cristiana/
Quannu attagghiu di la chiesa si posteggia un machinone, scinni Saro Branchia detto Re Leone.
Patri Coppola Balbetta e ammogghia l’omelia cu tri paroli, picchì sua Maestà s’ha fari a comunioni.
(Carmen Consoli – A’ finestra)
Gaia Stella Trischitta