Come l’Italia arma e addestra le milizie libiche

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di Antonio Mazzeo

L’Isis occupa la Libia e il Califfo è pronto a salpare e annettersi la Sicilia e il Sud Italia! Servizi segreti, establishment militare, leghisti, neo e postfascisti sono concordi a lanciare l’allarme sulla penetrazione del terrorismo di matrice islamica nel martoriato paese nordafricano, ipotizzando perfino l’infiltrazione di agenti e kamikaze tra i migranti che sfidano il Mediterraneo per raggiungere Lampedusa o Pozzallo. A Roma, parlamentari, generali e forze di polizia esprimono sgomento. Il conflitto è esploso improvvisamente e non era possibile prevedere ciò che sarebbe accaduto a Tripoli e Bengasi! il comune ritornello. Crisi imprevedibile, dunque, per la maggioranza e le opposizioni. Ma mentre in Libia divampava la guerra tra bande e alcune di esse adottavano in franchising le bandiere nere del Califfato, l’Italia si faceva in quattro per addestrare e armare le fazioni militari locali. Armi e milizie che oggi terrorizzano la popolazione civile e i rifugiati sub-sahariani e contro cui si è pronti a scatenare l’ennesima guerra preventiva e globale, in nome delle libertà e della cristianità minacciate.

La guerra civile che Roma né vede né sente

Il 17 febbraio 2014, Bernard Selwan El Khoury e Roger Bou Chahine, rispettivamente vicedirettore e direttore dell’Ogmo (Osservatorio geopolitico mediorientale) pubblicavano su Limes un lungo articolo dal titolo La Libia rischia la bancarotta e una nuova guerra civile. “A oltre 2 anni dalla caduta del regime di Muammar Gheddafi, la Libia è entrata in una fase che diversi osservatori definiscono come di vera e propria guerra civile”, scrivevano i due ricercatori. “Il paese è preda delle milizie e formazioni armate che ancora non si sono sottomesse alle deboli istituzioni militari e di sicurezza statali, mentre il governo centrale di Tripoli ha serie difficoltà nel controllare il vasto territorio libico. A ciò si aggiunge la crisi petrolifera – e quindi economica – legata alla sospensione, dallo scorso luglio, delle esportazioni di petrolio in buona parte dei porti della Cirenaica, controllati da Ibrahim al-Jadran, già capo della Guardia degli impianti petroliferi e oggi leader del movimento separatista denominato Ufficio esecutivo di Barqa”. Con lucidità e lungimiranza l’Ogmo imputava alle lotte per il controllo delle risorse nazionali il motivo principale del disordine libico. “Una lotta intestina dalla quale si evince come i nemici del governo libico siedano al suo interno: lo scontro per il controllo del potere economico è fra quanti gestiscono il petrolio e quanti appongono le firme per deliberare ogni spesa”, spiegava. “Inoltre, bisogna considerare la minaccia crescente rappresentata da formazioni jihadiste o dichiaratamente qaediste. Soprattutto quest’ultima emergenza preoccupa i paesi vicini, fra cui il Niger, che in più di un’occasione ha invocato un intervento militare internazionale guidato da Francia e Stati Uniti…”.

Osservatori internazionali, diplomatici e strateghi militari erano dunque al corrente perlomeno dall’autunno del 2013 sui devastanti processi politico-sociali e militari in corso in Libia. Il governo e le forze armate italiane invece sembravano non accorgersene, e mentre nelle cancellerie occidentali era già allarme generale, Roma rafforzava i programmi di addestramento e riarmo dell’esercito libico. Il 9 gennaio 2014 giungeva in Italia il primo contingente di militari libici per essere addestrati principalmente in “attività in ambito urbano” e nella vigilanza e contrasto dei flussi migratori. Si trattava di 340 uomini che per 14 settimane furono ospiti a Cassino (Fr) dell’80° Reggimento addestramento volontari dell’Esercito. Il ciclo addestrativo, dal nome in codice Operazione Coorte, era frutto dell’Accordo di cooperazione bilaterale tra Italia e Libia nel settore della Difesa, firmato a Roma il 28 maggio 2012 e rientrava tra le iniziative di “ricostruzione” delle forze armate libiche, varate al vertice G8 tenutosi a Lough Erne (Irlanda del Nord) nel giugno 2013. In cambio dell’assistenza, Tripoli s’impegnava a versare alle forze armate italiane 50 milioni di euro.

“L’obiettivo dell’addestramento è quello di creare delle forze armate libiche efficienti che siano un riferimento alla democrazia, alla stabilità e alla sicurezza del Paese”, spiegò il Capo di stato maggiore dell’Esercito, gen. Claudio Graziano. “In Libia c’è una crescita importante di democrazia rispetto al passato ma è chiaro che c’è bisogno del supporto internazionale”. Il personale libico, proveniente dalle conflittuali regioni di Fezzan, Cirenaica e Tripolitania, era stato selezionato nell’ottobre 2013 direttamente in Libia da una trentina di ufficiali italiani. “Una volta tornati a casa, i militari del nuovo esercito libico saranno in grado di svolgere le funzioni fondamentali del combattimento, della sicurezza e del controllo e della sorveglianza delle frontiere”, aggiunse Graziano. Che tra gli uomini giunti in Italia si potesse nascondere qualche “infiltrato” fu una possibilità rilevata dal colonnello dell’esercito libico Mohamed Badi, che però si disse certo che “con l’aiuto degli amici e soldati italiani saremo in grado di scoprirli”. Alle reclute furono consegnati fucili “Beretta” ARX 160, in dotazione all’esercito italiano dal 2010, con la speranza del complesso militare industriale nazionale che le armi fossero poi acquistate dalle autorità libiche.

Un secondo contingente di 300 militari giunse in Italia il 19 aprile 2014 per un ciclo addestrativo di 10 settimane con l’8° Reggimento Bersaglieri di Persano (Sa). Nella stagione primaverile si svolse a Brindisi pure un corso di qualificazione anfibia per marinai libici con gli incursori della Brigata “San Marco”, mentre 31 allievi libici furono ammessi a frequentare le accademie militari italiane. Una parte delle attività di formazione è stata realizzata in Libia da un team dell’Esercito integrato nella Missione Italiana in Libia (MIL), istituita l’1 ottobre 2013 per “organizzare, condurre e coordinare le attività addestrative, di assistenza e consulenza nel settore della Difesa”. A Tripoli, nei primi mesi del 2014 si tennero pure i corsi della 2^ Brigata Mobile dell’Arma dei Carabinieri a favore di 500 unità della Polizia nazionale, 100 Guardie di frontiera e 26 allievi della Polizia di protezione delle Ambasciate. “La preparazione raggiunta in pochi mesi permetterà ai militari libici di svolgere compiti di sorveglianza dei confini e di protezione dei pozzi di petrolio”, spiegò il Ministero della difesa italiano. Come sia andata a finire è noto a tutti. Con la beffa aggiuntiva che per il training in Libia nel biennio 2013-2014 sono stati spesi dall’Italia svariati milioni di euro. Per il 2015, nonostante le bande filo-Isis controllino villaggi e città, il decreto del governo Renzi che ha rifinanziato per i primi nove mesi dell’anno le missioni all’estero assegna 1.348.239 euro all’European Union Border Assistance Mission in Libya (EUBAM) e proroga l’impiego di personale militare “in attività di assistenza, supporto e formazione delle forze armate libiche”.

L’Italia addestra i libici per fare le guerre ai migranti

“Questi nostri figli che si addestrano in Italia sono pietre miliari nella ricostruzione della Libia e troveranno il primo impegno nella battaglia contro il terrorismo, ma anche nella guerra contro l’immigrazione clandestina”, dichiarava qualche mese fa al quotidiano la Repubblica, il “Capo” di Stato maggiore della difesa libico, gen. Abdulsalam Jadallah Al Obeidi. A fare da sponda l’ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, la più alta carica militare italiana, entusiasta per il contributo fornito alla Marina da guerra libica nella realizzazione di “operazioni come la nostra Mare Nostrum, per fermare chi specula sul traffico di esseri umani…”.

Dopo la caduta di Gheddafi, Roma e Tripoli hanno riconfermato in sostanza tutte le vecchie intese siglate dai due governi in materia di lotta all’immigrazione “irregolare”, compresa quella sui famigerati respingimenti in mare, duramente stigmatizzata dalla Corte europea dei diritti umani. Il 3 aprile 2012, in particolare, fu sottoscritto dai ministri dell’Interno italiano, Annamaria Cancellieri, e libico, Fawzi Altaher Abdulati, un accordo per eseguire “programmi addestrativi in favore degli ufficiali della polizia libica su tecniche di controllo della polizia di frontiera (confini terrestri e aeroporti); l’individuazione del falso documentale e la conduzione delle motovedette”. L’accordo italo-libico formalizzò altresì la creazione di un centro sanitario a Kufra, oasi della Libia meridionale ai confini con Egitto, Sudan e Ciad, per “garantire i servizi sanitari di primo soccorso a favore dell’immigrazione illegale”. E senza troppi giri di parole, infine, i due ministri invocarono il “coinvolgimento d’urgenza” della Commissione Europea per il “ripristino dei centri di accoglienza presenti in Libia”.

Il 6 febbraio 2013, in occasione della visita a Tripoli dell’allora ministro della difesa, ammiraglio Gianpaolo Di Paola, fu raggiunto un nuovo accordo per la “formazione” dei reparti militari e delle forze di polizia e – come spiegato dallo stesso Di Paola – “di cooperazione, anche tecnologica, nelle attività contro l’immigrazione clandestina e di supporto nazionale alla ricostruzione della componente navale, sorveglianza e controllo integrato delle frontiere”. Per contrastare l’immigrazione, nell’ottobre 2013 Tripoli rinnovò la collaborazione con l’industria Selex ES (Finmeccanica), per l’installazione di un sistema di sorveglianza radar e monitoraggio elettronico delle coste libiche e delle frontiere con Niger, Ciad e Sudan, dal costo di 300 milioni di euro. Il contratto in verità era stato firmato il 7 ottobre 2009, ma era stato sospeso nel 2011 dopo il completamento di una tranche dei lavori per 150 milioni. Il sito specialistico Analisi Difesa rivelò altresì che i libici chiesero pure di dotarsi di un non meglio precisato “monitoraggio aereo delle frontiere”, con l’ausilio di droni-spia “Falco”, prodotti sempre da Selex. Del resto proprio gli aerei senza pilota erano divenuti uno strumento chiave nelle guerre alle migrazioni: l’ennesimo accordo “tecnico” di cooperazione sottoscritto il 28 novembre 2013 dai ministri della difesa Mario Mauro e Abdullah Al-Thinn aveva autorizzato l’impiego dei Predator dell’Aeronautica militare (rischierati a Sigonella e Trapani-Birgi nell’ambito dell’operazione Mare Nostrum) a supporto delle attività di controllo dei confini del sud della Libia. Grazie ai Predator, cioè, lontani dagli occhi dei media e delle Ong dei diritti umani, è stato possibile intercettare le carovane dei migranti mentre attraversavano il deserto e informare i militari libici perché intervenissero per detenerli o deportarli prima che raggiungessero le città costiere.

Gli intenti tutt’altro che umanitari dell’operazione di “salvataggio” di vite umane nel Mediterraneo emergono ancora dalle dichiarazioni del Ministero della difesa durante il vertice italo-libico del 28 novembre 2013. “Nell’ottica di uno sviluppo delle capacità nel settore della sorveglianza e della sicurezza marittima – si legge – è emersa la possibilità di imbarcare ufficiali libici a bordo delle unità navali italiane impegnate in Mare Nostrum, nonché di avviare corsi di addestramento sull’impiego del V-RMTC (Virtual Maritime Traffic Centre)”. Un pass cioè a favore dei militari di un paese all’indice per le violazioni dei diritti umani per condividere le illegittime operazioni d’identificazione e gli ancor più illegittimi interrogatori dei migranti “salvati” nel Canale di Sicilia.

Con l’arrivo a Palazzo Baracchini di Roberta Pinotti (Pd), la stretta anti-migranti si è rafforzata. “Al fine di fronteggiare e ridurre l’emergenza immigrazione, è stata confermata la disponibilità alla cooperazione nel campo dei sistemi aerei a pilotaggio remoto e nelle attività di Search and Rescue (SAR)”, dichiarava la neoministra della difesa a conclusione del vertice con il libico Abdullah Al-Thinni (8 marzo 2014).

Onu, Ue e Nato denunciano che in Libia non esiste più alcun controllo governativo delle frontiere e che i gruppi paramilitari gestiscono indisturbati i traffici di migranti, ma Roma si ostina a sostenere e finanziare le border guard libiche. Nel recente decreto di proroga delle missioni militari all’estero, si destinano 4.364.181 euro per i prossimi otto mesi “a favore della Guardia di finanza, che dovrà garantire la manutenzione ordinaria delle unità navali cedute al Governo libico e per lo svolgimento di attività addestrative del personale della Guardia costiera libica, in esecuzione degli accordi di cooperazione sottoscritti il 29 dicembre 2007 per fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione clandestina e della tratta degli esseri umani”. Nello specifico, furono consegnate ai libici sei motovedette armate con mitragliere “Breda” cal. 30/70, “MG” cal. 7,62 Nato ed “M/12 parabellum”. Due unità affondarono con i bombardamenti alleati del 2011; le quattro rimanenti, danneggiate, furono trasferite a Napoli nell’agosto 2013 per essere sottoposte a lavori di riparazione e riconsegnate ai libici nel maggio 2014.

Nel febbraio 2013 l’Italia consegnò alla Libia “a titolo gratuito” pure 20 blindati da trasporto e combattimento VBL “Puma” 6X6, prodotti dal consorzio Fiat Iveco-Oto Melara, mentre la Marina militare donò quasi 70.000 capi di “vestiario in disuso”. Da tempi remoti Tripoli è una delle maggiori clienti delle industrie belliche italiane. Secondo il Sipri (l’istituto svedese di ricerche sui temi della pace e il disarmo), nel solo biennio 2008-09 le licenze autorizzate dal governo sono state pari al 34,5% di tutte quelle rilasciate verso la Libia in ambito Ue, per un valore complessivo di 205 milioni di euro. Alla vigilia della caduta del regime di Gheddafi, AgustaWestland (Finmeccanica) ha venduto alla Libia 10 elicotteri AW-109E “Power” per controllare coste e frontiere e 20 elicotteri AW-119K “Koala” e AW-139 per missioni d’emergenza e il combattimento. Nel gennaio 2008 le forze armate libiche comprarono da Alenia Aeronautica 9 pattugliatori marittimi Atr-42Mp e affidarono alla stessa azienda la revisione di 12 velivoli addestratori SF-260. Top secret i dati sull’export di armi leggere, molte delle quali oggi in mano a “terroristi” e jihadisti. Secondo il ricercatore Francesco Vignarca, tra il 2009 e il 2011, dalla Beretta-Benelli di Brescia sono partiti per la Libia 11.500 armamenti, “fatti passare per armi ad uso civile (come pistole, revolver e fucili da caccia ad uso sportivo) che in base alle norme italiane possono essere esportate senza il via libera del Governo, al contrario dei sistemi d’arma a scopo militare, regolati dalla legge 185/90”.

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