Con i cervelli nelle valigie di cartone

«Cosa intende per nazione, signor Ministro? È una massa di infelici? Piantiamo grano ma non mangiamo pane bianco. Coltiviamo la vite, ma non beviamo il vino. Alleviamo animali, ma non mangiamo carne. Ciò nonostante voi ci consigliate di non abbandonare la nostra Patria? Ma è una Patria la terra dove non si riesce a vivere del proprio lavoro?»

Sono recenti gli articoli che il mio sguardo incrocia su internet il cui contenuto fa riferimento a questa citazione anonima, strappata dalla spesso ambigua e a volte imprecisa fonte di wikipedia. Recenti, troppo recenti. E per qual motivo, poi? Per quale ragione riproporre una presunta frase di due secoli fa’, quando gli italiani partivano, fuggivano in massa, incapaci di sopravvivere nella nuova Italia, nella bella patria libera dall’oppressione e dalla miseria, costruita su misura per loro? Tempi antichi, tempi andati. Tempi di fame, di morte – meglio precisare, dato che sembra essersi ormai persa l’idea dell’indissolubile legame fra l’una e l’altra – e di valigie di cartone. Pensate, in quei tempi, così lontani, così distanti, la gente partiva dal proprio paese natio, che da qualche tempo chiamavano Regno d’Italia, e non sotto comando, non per “conquistare” l’Eritrea, la Libia, la Somalia – almeno chi era partito in tempo – , ma per conquistarsi una vita decente, un tozzo di pane meno duro, o anche durissimo, ma che fosse un tozzo di pane, o anche mezzo. Erano i tempi in cui i Giolitti, i Crispi, i Cairoli, i Salandra ignoravano i problemi di quelli che loro stessi chiamavano italiani, i tempi in cui chi comandava ignorava le “crisi”, invitava all’ottimismo. Erano i tempi in cui chi lo cercava in “patria” quel tozzo di pane era chiamato brigante, i tempi di un Sud abbandonato ed in disfacimento, di una classe politica di principi, marchesi, conti, duchi, ufficiali dell’esercito che ben poco aveva a che vedere con il popolo fuggitivo, il popolo dei braccianti, di chi a la terra deve di più, di chi della terra è figlio fedele, di chi piange quando la deve lasciare. Niente a che vedere con la Repubblica italiana del XXI secolo, moderna, “virtuosa”, democratica! Oramai lontani dai tempi cattivi possiamo anche permetterci di festeggiarla quest’Italia, che alla fin fine, centocinquanta anni dopo, ha mostrato il suo volto buono, la sua essenza liberaldemocratica.

Non sono più i tempi delle partenze di massa, degli spaghi stretti attorno a bagagli di fortuna, pronti per eterni viaggi transoceanici. Oggi non è più così. I telegiornali lo dicono ogni giorno che siamo invasi dagli immigrati, e quando non lo dicono lo fanno capire implicitamente. Immigrato stupra, immigrato uccide, immigrato viene ucciso. E la Lega Nord è sempre in testa nelle battaglie di civiltà contro il cosmopolitismo, per uno Stato chiuso, dove chi è dentro è dentro e chi è fuori è fuori. Dimenticano i leghisti che furono i loro avi i primi a fuggire dalla Madrepatria, quella che loro oggi chiamano Padania. Tra il 1876 e il 1900 erano gli uomini e le donne del Nord che partivano: 940.711 veneti, 709.076 piemontesi, 847.072 friulani, 519.101 lombardi. Tre milioni e sedicimila persone fuggivano dall’Italia in questi anni, proprio quelli che erano partiti poco tempo prima sotto la spinta emozionale di un “qui si fa l’Italia o si muore” che a centocinqantanni – ma forse anche a venti – dall’Unità d’Italia, fa sentire il suo sapore anacronistico. Ma qualcuno potrà obiettare che erano altri tempi, che adesso – solo per citarmi – non sono più i tempi di un Sud abbandonato, di una classe politica aristocratica, i tempi in cui i potenti ignorano le crisi, ed insieme ad esse, la miseria, la morte. Più di qualcuno potrà dire che non sono più i tempi delle forti tensioni sociali, delle mattanze dei pastori in piazza, delle migrazioni per un una vita dignitosa.  Qualcuno potrà dire tutto ciò, certo che potrà dirlo, ma chi ci crederebbe?

Tra il 1861 ed il 1985 sono 30 milioni gli italiani che partono, più della popolazione del primo censimento dall’Unità d’Italia – ammontante a 25 milioni di regnicoli – , e circa la metà della popolazione attuale della Repubblica. Ed i nuovi sviluppi sono decisamente interessanti – e necessariamente avvilenti – , aldilà di quella che potrebbe essere l’opinione di quel qualcuno a cui piace vedere rosa al di fuori di ogni realistico esame della realtà. Dallo studio della Confimpreseitalia (Confederazione Sindacale Datoriale Associazione Micro Imprese e Artigianato aderente a Confapi, il sindacato dei piccoli imprenditori), effettuato attraverso l’incrocio dei dati dei ministeri dell’Interno e degli Esteri riferenti ad un’età compresa fra i 20 ed i 32 anni, risulta che ogni anno il nostro paese saluta 60mila giovani, e «molti di questi giovani sono qualificati – strana espressione, non trovate? – e ad alta scolarizzazione, anche e soprattutto universitaria».

È il discusso fenomeno del brain drain, niente di particolare. La fuga dei cervelli, infatti, non è di certo una prerogativa italiana: dal resto del mondo verso gli Stati Uniti e l’Europa, dal sud dell’Europa verso il nord, dall’est verso l’ovest. Ecco le coordinate della cosiddetta migrazione dei talenti. Tale fenomeno si riferisce all’emigrazione verso paesi stranieri di persone di talento o alta specializzazione professionale alla ricerca di un’occupazione. Tale fatto conclamato differisce chiaramente, d’altra parte, da quelli che sono stati individuati come ulteriori processi riguardanti lo spostamento professionale aldilà delle frontiere statali; processi che l’OCSE nel 2006 ha definito come: brain exchange e brain circulation. Difatti, se il cosiddetto scambio di cervelli corrisponde al flusso di risorse intellettuali che si crea tra un Paese e l’altro, con uno spostamento equilibrato nei due sensi, e la circolazione dei cervelli definisce il percorso di formazione e avviamento alla carriera, in cui ci si sposta all’estero per completare gli studi e perfezionarsi, e, alla fine, si torna in patria, dove si mettono a frutto le esperienze accumulate, essi appaiono come fenomeni certamente positivi, che agevolano le interazioni i fra i diversi paesi, e che, proprio per questa ragione, sembrano essere l’obiettivo cui tende l’Unione Europea oggi. A questo punto appare cristallino agli occhi di chiunque – magari anche di quel qualcuno che mi da sempre contro – che entrambi i fenomeni sopraelencati non si adattino perfettamente alla situazione italiana. Ma è ovvio che l’OCSE non poteva scordarsi del baluardo europeo contro l’immigrazione extraeuropea – sporca, nera e decisamente ben poco “qualificata”. Per questo è stato elaborato un fenomeno che, a braccetto con quello del brain drain – letteralmente drenaggio di cervelli – , si modella perfettamente al caso italiano: il brain waste. Lo spreco di cervelli, definisce una situazione nella quale l’emigrazione non è fisica ma occupazionale, e corrisponde allo spostamento di personale altamente qualificato verso impieghi che non richiedono l’applicazione delle cognizioni per cui esso è stato formato. Verrebbe da pensare ai nostri sovraffollati Call Center, che si stanno trasformando pian piano nell’ingrosso dei laureati senza un lavoro – categoria in prepotente e costante aumento da circa vent’anni – , offrendo rifugio ai meno fortunati cuccioli di giurista, filosofo, matematico, letterato, scienziato ed altre specie.

Omettendo questioni indiscutibilmente secondarie, che implicano la trattazione di argomenti quali «uno Stato che abbandona i giovani è uno Stato destinato a morire», oppure «la ferita che nasce dall’abbandonare la propria terra lascia una cicatrice che non si rimargina», o ancora «non può chiamarsi civile quel paese che nega i diritti su cui si fonda, l’istruzione, il lavoro, il pieno sviluppo dell’individuo» è necessario – estremamente necessario – focalizzare l’attenzione del lettore sulla vera vittima dell’obbrobrio rappresentato dalla fuga dei cervelli: la Repubblica italiana. Nel 2007, infatti, il brain drain è costato allo Stato Italia circa 1 miliardo e 173 milioni di euro. Questa cifra è stata ottenuta dalle ricerche del blog “La fuga dei talenti” attraverso un calcolo incrociato su dati dell’OCSE a proposito della spesa sull’istruzione, e su quelli del Censis riguardo il fenomeno dell’immigrazione formativa. Ogni ricercatore, dottorando, neolaureato, diplomato che parte rappresenta dunque per lo Stato un investimento a fondo perduto pari ad una media di € 100.304,00 soltanto per il percorso formativo che va dalla scuola primaria alla media superiore, e che dunque esclude gli sforzi economici – espressione decisamente infelice quest’ultima, a maggior ragione di questi periodi – dello Stato per ciò che riguarda la formazione universitaria degli individui.

Un tradimento della patria il brain drain, dunque, una diserzione, un ammutinamento di massa. Inganno, imbroglio, truffa allo Stato. Chiudere le frontiere, bloccare gli espatri, richiamare gli ambasciatori. Il Governo ha prontamente risposto all’emergenza. Niente più fuga di cervelli, niente più valigie di cartone né trolley ultraleggeri.

«Signor Ministro, è una Patria la terra dove non si riesce a vivere del proprio lavoro? Ora si. Finalmente»