«C’è una cappa su Cosenza. Sembra una città tranquilla, ma il problema è che le stesse famiglie politiche comandano da troppo tempo. Quando Nichi Vendola a Messina parlava di “verminaio” io scrissi che era lo stesso qui, ma nessuno accende i riflettori su questa città e se parli di mafia ti diffamano, dicono che sei un pazzo». Parla così Gianfranco Bonofiglio, giornalista e grande conoscitore della ‘ndrangheta a Cosenza. Sono parole amare, le sue, dettate da un’esperienza che gli ha permesso di confrontare la realtà siciliana con quella calabrese. «Io ho vissuto due anni in Sicilia e ho toccato con mano la differenza: la ‘ndrangheta non ha una società civile che la contrasta». E la situazione odierna, secondo Bonofiglio, è più difficile di anni fa: «Quando Giacomo Mancini (l’amatissimo politico cosentino che da ministro e da sindaco ammodernò la città bruzia, ndr) si incontrava con Piromalli erano alla pari. Adesso la ‘ndrangheta è superiore alla politica, la governa comprandosela, come la magistratura».
Tutto comincia nel 1977 con l’omicidio di Luigi Palermo, detto ‘U Zorru. In quale quadro matura quell’assassinio?
«Matura nel quadro di una trasformazione che era in corso in quegli anni in tutta la criminalità, non solo calabrese ma anche nazionale. Quelli erano gli anni in cui si passava da un sistema di mafia antica, patriarcale, verso un sistema mafioso che invece vedeva nello spaccio e nel traffico di stupefacenti il nuovo, grande affare da gestire per trasformarsi in massa imprenditrice. Quindi è una trasformazione radicale di un modo di pensare e di gestire il fenomeno criminale. L’omicidio di Luigi Palermo nel 1977 sancisce il cambiamento della criminalità cosentina. Palermo si era opposto al traffico della cocaina e dell’eroina e degli stupefacenti in generale perché da vecchio patriarca non voleva che a Cosenza sbarcasse questo sistema. I giovani scalpitanti, fra cui in primis Franco Pino, che poi diventa il boss di tutta la città, decidono di farlo fuori per questo. Morto Palermo si apre la faida tra i due gruppi dominanti, tra Pino e Perna (Franco, ndr) e si assiste alla trasformazione della criminalità cosentina che da una criminalità primitiva diventa imprenditrice».
Secondo lei quali connivenze hanno permesso questa evoluzione, da un insieme di bande a criminalità organizzata?
«Il sistema che ha consentito questa trasformazione è stato prima di tutto un clima di connivenze e collusioni con la nuova realtà politica emergente e con la magistratura che era preposta a chiudere gli occhi, invece di agire per come avrebbe dovuto. Gli attori della società cosentina erano tutti pronti a colludersi tra di loro, ad appoggiare quello che era il nuovo sistema criminale, che si era collegato anche con gli emergenti del mondo politico attraverso il voto di scambio e con quella forma di corruzione che poi entrò anche nelle istituzioni, cioè nella magistratura e in tutte le rappresentanze dello Stato. È stata una trasformazione sociale che ha visto insieme molti fattori, dove ogni pezzo del puzzle si è messo ad incastro nel posto giusto e che ha consentito a quattro cialtroni – perché in realtà erano quattro cialtroni ignoranti – di assurgere a mafia imprenditrice. Ma sempre con l’appoggio di chi, colletto bianco, non mettendosi mai in mostra, ha ottenuto grandi profitti sia in termini elettorali sia in termini economici da questa situazione».
Queste sono accuse ben circostanziate, mancano solo i nomi.
«Leggendo il libro che ho scritto si capiscono i nomi. Io sono un giornalista impegnato contro le mafie da trent’anni e non li posso fare perché a Cosenza non esiste una società civile che dia man forte a chi si è esposto in prima linea. Se Roberto Saviano fosse nato a Cosenza invece di Napoli sarebbe stato un illustre sconosciuto e una voce al vento. La stessa cosa per tutti i giornalisti che sono stati uccisi dalla mafia siciliana. Io ho dedicato il libro a loro, ma c’è un paradosso: loro sono stati uccisi perché comunque c’era qualcuno che li ascoltava e quindi rappresentavano un pericolo. Se avessero fatto la loro attività giornalistica in una realtà dove la società civile non esiste, dove non c’è un riconoscimento per chi si espone, non avrebbero raggiunto alcun successo e non sarebbe stato necessario ucciderli perché non avrebbero inciso sulla realtà. Cosenza è una di quelle città che uccide le voci coraggiose perché non c’è nessuno che le valorizza. La mafia non uccide per nulla, uccide per uno scopo. Se un giornalista viene ascoltato diventa pericoloso, se non viene seguito diventa inutile sia minacciarlo sia ucciderlo».
Il muro di gomma è più efficace.
«Certo. Quindi non è compito mio dare dei nomi. Io li so, nel mio libro si capiscono e chi conosce la realtà cosentina li sa. Sono esattamente 32 anni che lavoro su queste cose, ho iniziato a 19 anni con Pino Arlacchi all’Università della Calabria e da allora ho preso questa strada di impegno antimafia. Quando nel 1986 ho fondato la “Lega giovanile per lo sviluppo della coscienza antimafia” Saviano era un bambino di 7 anni e Siani ne aveva 5. Io ho fatto queste cose molti decenni prima degli altri, con la differenza però che le ho fatte in una realtà dove il muro di gomma, come era forte allora lo è anche oggi. In una realtà dove nessuno ti ascolta non vai avanti e non sei nessuno. È normale che la trasformazione criminale di Cosenza assomigli a quella di tante realtà. Però la mafia cosentina è stata più fortunata, a differenza di quella di Reggio o quella di Palermo o di Napoli, perché mai nessuno ha considerato Cosenza una città ad alta densità mafiosa. Io ricordo negli anni Ottanta che c’erano illustri politici cosentini che ancora sostenevano che la mafia a Cosenza non esisteva. Io ho sempre paragonato Cosenza alla Palermo degli anni di Ciancimino: quando don Vito era sindaco di Palermo c’erano molti politici siciliani che dicevano che la mafia non esisteva, che era un’invenzione della stampa, di folli. Oggi nessuno può dire che la mafia non esiste, lo sanno tutti, però Cosenza continua ad essere una città dove non c’è una coscienza civile collettiva, un impegno collettivo contro le mafie. Ognuno si fa i fatti propri. Nessuno si sognerebbe di fare una sfilata contro la mafia a Cosenza, verrebbe preso per folle. Infatti non c’è nessun movimento».
In questa situazione di assenza del supporto da parte della società civile al contrasto alla ‘ndrangheta, che diffusione hanno il pizzo e la droga, che sono storicamente mezzi di arricchimento per le mafie?
«Vastissima, a Cosenza pagano tutti. Lo dimostra anche il fatto che in questi ultimi giorni ci sono state un sacco di intimidazioni. Per di più Cosenza è una città dove c’è un altissimo tasso di smercio di cocaina: in tutta l’area urbana di Cosenza e provincia – Rende, l’università, si parla di 140mila abitanti – ci sono 3mila tossicodipendenti da cocaina quotidiani, cioè un enorme commercio di sostanze stupefacenti. Ma viene sottovalutato, chi ne parla? È come se il problema della droga non esistesse, quando in realtà è fonte di proventi enormi per la mafia cosentina. Se ne parlava di più negli anni Ottanta, quando c’erano le comunità di recupero – che erano tantissime mentre oggi non ce ne sono più, e quelle tre o quattro che resistono sono abbandonate a loro stesse – mentre oggi il problema è più serio perché sono molti di più i tossicodipendenti soprattutto da cocaina».
E la magistratura arriva a scalfire il potere delle cosche a Cosenza? O è piuttosto silente sulle connivenze dei poteri cittadini con la ‘ndrangheta?
«Questo è un problema sollevato nelle tantissime interrogazioni parlamentari che negli ultimi quindici anni sono state portate avanti da numerosi parlamentari sulla Procura cosentina. In queste interrogazioni si sosteneva che non sembrava esserci un grande interesse e un grande impegno nella vera lotta alla mafia. Penso che la città avrebbe bisogno di un pool antimafia che non sia fatto da giudici di Cosenza. Il grande pool di Palermo è potuto nascere perché un magistrato di Firenze, Antonino Caponnetto, è diventato procuratore capo di Palermo. Qui servirebbe allo stesso modo qualcuno che non sia cosentino e che non sia legato al territorio. Cosenza è stata sempre sottovalutata, anche sul piano nazionale. Probabilmente la magistratura ha fatto molto meno di quanto avrebbe potuto. Non voglio accusare nessuno, ma ritengo che ci siano magistrati troppo legati al mondo in cui sono nati. I procuratori capi della Procura sono sempre stati cosentini».
L’analisi di Gianfranco Bonofiglio è amara. Ma lascia uno spiraglio, seppur sottile, di ottimismo quando dice: «Io sono orgoglioso di portare avanti questa battaglia». Nonostante l’isolamento, nonostante nulla cambi se non in peggio, non chiude gli occhi.
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