Da Rebibbia lo sfogo della Occhionero

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Sono Francesca Occhionero, dal 9 gennaio 2017 detenuta nel carcere di Rebibbia, dove, quindi, mi trovo a “sopravvivere” ormai da 183 giorni.

Ritengo che sia assolutamente infondato ed ingiusto quanto sostenuto per la custodia cautelare che sto subendo: ma ciò è stato e sarà trattato nelle opportune sedi.

Quel che, invece, ora mi preme evidenziare riguarda il fatto che la detenzione avviene in condizioni generali di assoluta, evidente e nota illegalità, e ciò rischia di essere strettamente collegato con i fatti di causa.

Sono note le condanne inflitte dalla Cedu all’Italia per lo stato di illegalità delle carceri ( per le dimensioni delle celle e per il sovraffollamento, che dovrebbe far pensare ad un ricorso eccessivo alla custodia cautelare in carcere).

Ma sono altrettanto ben note le condizioni concrete nelle quali i detenuti sono costretti a “sopravvivere”, così come mi trovo io, letteralmente a “sopravvivere”.

Qualche cenno:

1) Nel cortile della mia sezione c’è una fogna a cielo aperto, con odori insopportabili, tra sterpi da cui fuoriescono topi di varie dimensioni; ebbene, qui si svolge l’ora d’aria!

2) Detenute che hanno piaghe e sfoghi cutanei sono chiuse in “isolamento sanitario” per giorni, senza che si presenti un dermatologo, nonostante il sospetto ( arguibile dall’isolamento) del trattarsi di malattie infettive. Infatti, il reparto Nido è stato isolato in quarantena per “scabbia”.

3) Io stessa, ormai piena di sfoghi e punture di insetti, il 7 giugno scorso chiedevo di avere un parere medico. La risposta dell’infermiere di turno in ambulatorio è stata che il medico sarebbe stato disponibile per il mio settore solo il martedì successivo.

Insomma, ci si può ammalare solo di martedì, ovviamente iscrizione nella lista permettendo. Cosa analoga era successa a maggio, quando sono rimasta bloccata per un colpo della strega dovuto a cinque mesi passati su un letto con un materasso di cui dirò.

Per i miei ponfi, non sono riuscita ad avere neanche una crema cortisonica, in quanto, a detta dei vari infermieri di turno, sarebbe terminata da tempo. Ho assistito io stessa un infermiere mettere del Voltaren gel su un ponfo derivante dalla puntura di un’ape.

4) Una ragazza, che lamentava da tempo l’insorgenza di piaghe sulle gambe, dopo un mese ha finalmente ricevuto una visita medica e le è stata diagnosticata una micosi infettiva ( si è parlato di tigna).

La stessa ragazza ha continuato a condividere i 9 mq. di cella con la sua concellina ed a frequentare gli spazi comuni.

5) Condivido una cella di meno di 9 mq ( magari lo fossero!) con un’altra persona che dorme sul letto superiore di un letto a castello dotato di materassi di gommapiuma usurati, bucati, bruciati, pieni di acari e pulci, ormai scaduti da oltre 10 anni. Alla richiesta di sostituzione mi sono sentita rispondere, con il visibile sconcerto della stessa polizia penitenziaria, che non ci sono materassi a sufficienza.

6) Sono obbligata a nutrirmi mediante il vitto passato dal carrello del carcere, ma con grande disgusto e sofferenza fisica. Ne ho capito il motivo quando altre detenute che hanno lavorato in cucina me ne hanno riferito le pessime condizioni igieniche. Pentole, teglie, mestoli e tutto il resto viene infatti “lavato” con spugnette bisunte e praticamente senza detersivi.

Non vi è mancata la presenza di scarafaggi e persino un grosso topo. I grandi scolapasta vengono sfilati dalle pentole in ebollizione e, con tutta la pasta, trascinati sul pavimento anziché essere sollevati. E questo solo un cenno.

7) Il congelatore non funziona, col risultato che è impossibile conservare alcunché. Nella cella la temperatura è infatti ormai prossima a quella di un forno.

Il cibo si scongela e ricongela.

Per non dire che, ovviamene, gli approvvigionamenti interni sono fuori di qualsiasi logica: i prodotti sono limitati ed i prezzi raddoppiati e triplicati.

8) Il cortile, le grate delle finestre e i davanzali sono preda di piccioni ( e dei loro escrementi) e di gabbiani.

Sovente i gabbiani attaccano i piccioni lasciando i cadaveri a marcire sui davanzali delle finestre. Facile immaginare gli odori ed il vomitevole panorama.

9) Il carcere è teatro di continue risse e scontri tra le detenute a causa della difficile convivenza nelle celle, la cui assegnazione avviene inevitabilmente in funzione della scarsa disponibilità; e così vengono fatti convivere soggetti assolutamente incompatibili tra loro e con il carcere ( molti di loro dovrebbero essere indirizzati presso altre strutture, idonee per adeguati trattamenti psichiatrici).

10) Il bagno presente in cella è in condizioni pietose. Lo sciacquone perde acqua ininterrottamente, la cipolla della doccia, completamente intasata dal calcare, è un proiettile pronto a partire con la pressione dell’acqua. Dopo esserne stata colpita una volta, d’intesa con la mia concellina, mi faccio la doccia usando il solo tubo.

Il filtro/ riduttore del lavandino è analogamente “esploso” a causa del calcare e, data l’assenza di tappi, è finito nello scarico. Il water è privo di coperchio.

11) Una mattina mi sono svegliata con la cella completamente allagata a causa di un’enorme perdita dal muro del bagno ( problema che aveva già interessato la cella a fianco). Tutto galleggiava, sia nel bagno che nella cella, le lenzuola del letto del piano di sotto erano zuppe, così come le scarpe e tutto ciò che poggiava in terra.

A nulla sono valsi i solleciti alle assistenti di sezione, che ben poco potevano fare, se non a loro volta sollecitare la manutenzione. L’idraulico si è presentato solo tre giorni dopo.

Nel mentre, il bagno, il water e il bidet erano del tutto inutilizzabili, e quindi ci è stato dato l’unico suggerimento pratico possibile: «Chiudete tutti i rubinetti dell’acqua e … usate i secchi».

Tutto ciò, anche in estrema sintesi, era la necessaria premessa per OSSERVARE che le condanne inflitte dalla CEDU sono ben note, ma altrettanto note sono le concrete condizioni, come quelle da me vissute, nelle quali i detenuti e le detenute si trovano a “sopravvivere”, spesso in condizioni davvero disumane ed inaccettabili per una società civile.

Ebbene, poiché tutto ciò è ben noto, è mio libero pensiero ritenere che continuare a fare uso della custodia cautelare sia una forzatura inammissibile, un abuso del diritto, una ingiustizia.

Tanto più nei casi come il mio, nel quale il rischio di fuga è formalmente escluso, quello di inquinamento è riconosciuto come scemato, residuando, nei provvedimenti che mi hanno negato una attenuazione della misura, solo il rischio di reiterazione, il quale però resta escluso dalla assoluta mancanza di elementi circa i fatti di insussistenti e non provate esfiltrazioni informatiche.

Mi sembra, quindi, evidente la forzatura del mantenimento della mia custodia cautelare in carcere, che nei vari provvedimenti, in modo significativamente seriale, viene espressamente ancorata alla mia ( asserita) mancata resipiscenza ed alla mia mancata collaborazione, come se una qualche norma la ponesse a buon motivo della misura cautelare!

Tralascio le altre evidenti forzature contenute nei vari provvedimenti ( nei quali, ad esempio, si fa riferimento a dati informatici esfiltrati: ma da dove risultano tali esfiltrazioni? ma dove sono indicate negli atti di Pg?). Prima o poi inevitabilmente emergerà che dette forzature sono solo l’evidente segno della debolezza dell’impianto accusatorio, cui evidentemente il giudice avverte il bisogno di porre rimedio.

Tutto ciò premesso e considerato, la CONCLUSIONE appare evidente.

Infatti, quanto sopra sintetizzato induce a sospettare che le ben note, illegali e talvolta disumane condizioni carcerarie, rispetto alle quali non coglie il segno di alcuna reazione, vadano a conciliarsi perfettamente con l’aspettativa che il detenuto “collabori”, anche se per legge una collaborazione non è dovuta ed anche se ( come nel mio caso) una collaborazione è persino impossibile.

Ovvio che non posso minimamente accettare l’idea che tale sospetto possa avere un lontano fondo di verità: sarebbe a dir poco avvilente ed irrispettoso della intelligenza e della dignità umana e professionale di chi dovesse far uso di simili strategie.

Per cui, ferma restando la incomprensibile inerzia che accompagna le note condizioni carcerarie, voglio tenere del tutto lontano il sospetto di un uso strumentale e distorto dello strumento carcerario, che, diversamente ragionando, a ben vedere, si tradurrebbe in una vera e propria tortura.

Dovendo e volendo escludere l’indicato sospetto, debbo però aggiungere che nel mio caso non ritengo si possa in alcun modo ipotizzare la attuale sussistenza dei presupposti di legge per il mantenimento del mio stato di detenzione. Come ho già detto, fuga ed inquinamento sono esclusi; e il pericolo di reiterazione non ha ragione d’essere. Ed ovviamente la mancanza di tali presupposti non può essere colmata con riferimento ad insussistenti e non provati fatti di esfiltrazioni informatiche ( che peraltro non sarebbero a me riferibili): nel fascicolo non ve ne è la minima traccia e non capisco perché si continui meccanicamente ad invocarle.

Al riguardo non posso e non voglio trattare profili tecnici, ma ritengo significativo che, salvo errori nelle notizie di cui dispongono, io e mio fratello siamo, almeno in Italia, gli unici imputati per “tentati” reati informatici attualmente in carcere e certamente siamo i detentori di un record assoluto di durata di custodia cautelare carceraria per tali reati.

In conclusione, quindi, CHIEDO, in primo luogo, che ognuno per quanto di propria competenza si attivi affinché cessino le denunciate illegalità in ambito carcerario e, in secondo luogo, che, considerata la insussistenza almeno attuale – dei presupposti di legge, venga rimossa o attenuata la misura cautelare a me applicata.

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Responsabile di Redazione - Palermo Nata a Palermo nel 1992, ha frequentato l’Istituto Salesiano Don Bosco Ranchibile, dove ha conseguito il Diploma di Scuola Superiore; la sua passione per l’arte e per la letteratura l’ha spinta ad intraprendere studi di matrice umanistica. Laureanda in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Palermo, si è impegnata attivamente, penna alla mano, nella valorizzazione degli anfratti più nascosti ed incantevoli di una Palermo tutta da scoprire. Da sempre affascinata dal mondo della carta stampata, Giorgia ha preso parte ad iniziative volte a garantire il rispetto dell’universo femminile ed a favorire una maggiore partecipazione della donna alla vita politica e sociale. Idealista e determinata, intende contribuire con ogni mezzo al miglioramento delle condizioni della sua amata città, affinché possa essere restituita al suo antico ed eterno splendore.

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