DISLESSIA: NON UNA MALATTIA

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La dislessia è un Disturbo Specifico dell’Apprendimento (DSA) che interessa uno specifico dominio di abilità quali la lettura, la scrittura e il calcolo. Il funzionamento intellettivo generale resta dunque intatto: il soggetto dislessico non mostra di conseguenza deficit di intelligenza, sensoriali o neurologici. La dislessia non è, quindi, una malattia. Una precisazione che può sembrare superflua, ma necessaria. Così come necessaria risulta essere un’informazione e una comunicazione che non coinvolga esclusivamente i soggetti o le famiglie che vivono quotidianamente questa problematica.

E’ questa la missione dell’associazione di volontariato “Harahel” di Messina, da anni attiva nel settore del disagio minorile, scolastico e non solo. Contando sulla partecipazione attiva di volontari ed esperti quali logopedisti, pedagogisti e psicologi, l’associazione nasce come supporto ai genitori di bambini dislessici, andando oltre. Tramite organizzazione di eventi, laboratori didattici, manifestazioni, incontri nelle scuole, colloqui di supporto e gruppi di sostegno, la missione comunicativa si allarga per scardinare i numerosi pregiudizi che gravitano intorno alla dislessia e diffondere maggiore consapevolezza su una problematica che, lo ripetiamo, non è una malattia. “E’ quasi commovente vedere la grande partecipazione dei giovani alle nostre manifestazioni. Il messaggio che diffondono è quello di uguaglianza e solidarietà nei confronti di persone che non sono malate, ma hanno semplicemente un diverso modo di apprendere”, racconta la dott.ssa Saglimbene, membro attivo dell’associazione.

La sensibilizzazione potrebbe sembrare superflua, ma risulta invece importante non solo un’opera di diffusione che sfrutti l’arte come attrattiva e mezzo di coinvolgimento, ma anche e soprattutto un’azione informativa. Un’azione utile non solo per una società sempre pronta ad additare il ‘diverso’, ma anche e soprattutto per quelle famiglie che, con questa società, fanno i conti tutti i giorni. Considerando la pregiudizievole condizione che vede chi soffre di dislessia additato come un malato, un’opera che punti alla diffusione di una maggiore conoscenza e consapevolezza del problema acquista un valore sociale assolutamente da considerare. L’ignoranza è notoriamente la madre del pregiudizio, e questo inevitabilmente è padre della sofferenza, dell’esclusione, dell’alienazione e, troppo spesso, della paura. Una paura da combattere con la conoscenza e il sapere. Elementi importanti sia per la società, che per le famiglie su cui persiste la problematica della dislessia.

“E’ importante per i genitori di bambini con difficoltà nell’apprendimento, non lasciarsi prendere da allarmismi, ma informarsi correttamente su questa problematica. L’informazione ha un’importanza fondamentale sia per affrontare la situazione, che per avere la certezza che il bambino sia effettivamente dislessico”, afferma la dott.ssa Giovanna Cardile, docente e pedagogista, sottolineando come sia importante una diagnosi tempestiva e, soprattutto, non affrettata e ben ragionata:  “Bisogna prestare molta attenzione a partire dalla diagnosi, che avviene intorno a due anni e mezzo. Il genitore spesso confonde la dislessia con problematiche legate alla crescita, sottovalutando particolari importanti che richiederebbero l’intervento del pediatra. E’ bene consultare uno specialista se il bambino dopo i due anni e mezzo presenta difficoltà nella lettura, o usa un vocabolario scarso o atipico. Al tempo stesso è necessario che il medico vagli tutte le possibilità, prima di inserire il bambino all’interno dello spettro dell’autismo. Spesso difficoltà che possono apparire come manifestazioni di dislessia sono in realtà dovute a problemi legati alla vista, all’udito o alla struttura della mandibola. E’ necessario quindi individuare quale sia l’eventuale problema strutturale o fisico che possa essere confuso con la dislessia.”

Nel caso in cui venga diagnosticata in tempo, intorno quindi ai due anni e mezzo, esistono svariate terapie che danno ottimi risultati: “dalla dislessia si esce! – continua la dott.ssa Cardile – ma è importante che il bambino venga coinvolto con il gioco, tramite il quale impara a comunicare, a socializzare. Se si punta solo al freddo rapporto con il medico, si rischia di incorrere nella chiusura del bambino e nella inevitabile incomunicabilità”. 

A prescindere da quelli che possano essere gli interventi in campo medico e tutti gli ausili (strumenti audio-video, libri, giochi, test neurologici) utili durante la terapia, l’aspetto da non sottovalutare nel trattamento dei disturbi dell’apprendimento è quello che vede il bambino e i genitori muoversi all’interno della società. L’approccio con il mondo esterno diventa, per il bambino, un momento molto importante per sviluppare le proprie capacità comunicative. Per quanto riguarda i genitori, è fondamentale che possano contare sul supporto di esperti che sappiano istruirli sui comportamenti da evitare, e sull’appoggio di altre famiglie con cui condividere esperienze e preoccupazioni. “Il confronto con altre famiglie e altri genitori è molto importante e soprattutto costruttivo. Lo scambio di informazioni ed esperienze è utile sia ad evitare l’isolamento, che ad imparare a non lasciarsi abbattere. Molti genitori vivono la dislessia del proprio figlio con un forte senso di colpa”, continua la dott.ssa Cardile. E’ quindi spesso consigliabile l’intervento di uno psicologo, da intendersi come aiuto e non come conferma dell’irrimediabilità di un problema. Per quanto riguarda il bambino con disturbi dell’apprendimento, è bene che non viva questa problematica come motivo di isolamento: “è importante che il bambino viva in serenità il suo vivere sociale. I genitori non dovranno correggere gli errori come se dovesse obbligatoriamente imparare qualcosa, sottolineando quindi la diversità o l’errore. Ciò eviterà di far nascere in lui un sentimento di frustrazione e inadeguatezza.”

E’ dunque necessario che i genitori comprendano che, con la giusta terapia, la dislessia è una problematica assolutamente risolvibile. Il bambino va trattato come tale, considerando l’importanza di un’attività di supporto continua che eviti, al tempo stesso, di creare un sentimento di frustrazione e una sensazione di inadeguatezza che porterebbe alla chiusura e al fallimento di ogni intervento. Il nascere dei rapporti sociali è dovuto all’indole del bambino, non alla propria difficoltà nel leggere una sillaba al posto di un’altra. “La capacità relazionale dei bambini con difficoltà dell’apprendimento dipende dal carattere di ognuno di loro, non dalla dislessia”, continua l’esperta. Questo ovviamente se il bambino non è messo nelle condizioni di sentirsi un ‘diverso’ tra simili, un ‘malato’ o, ancora peggio, uno ‘sbagliato’. Le stesse terapie vengono strutturate come dei giochi, per mantenere viva l’attenzione e stimolare le reazioni in maniera attiva. Ma soprattutto perché è di bambini che stiamo parlando, non dimentichiamocelo.

Gaia Stella Trischitta

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