Drammi e gioie in 35 mm

Inarrestabile. Un’inarrestabile, impetuoso torrente. A nulla servirebbero argini e dighe, nessuna barriera è insormontabile ormai. Non possiamo fermarlo. Non dobbiamo.

Ogni giorno le nostre coste vengono raggiunte da centinaia di migranti: uomini e donne, in fuga. Alle loro spalle, la desolazione. A poche miglia dalle loro case, la speranza. Nessuno di loro ha scelta, perché la morte non è mai una scelta. E così i nostri porti sono gremiti di sguardi afflitti, visi scarni, lacrime e desideri. Una folla di speranze e chador, una moltitudine di anime in preda alla paura.

Ma dietro ogni volto arso dal sole c’è una storia. Ognuno di loro ha la propria, anche se spesso sembriamo dimenticarcene. Francesco Malavolta, giovane fotoreporter calabrese, lo sa bene.

Francesco racconta le vite dei profughi con scatti di assordante immediatezza, spaventosamente veri. Lo chiamano il fotografo dei migranti: le sue istantanee hanno dato voce a chi ha perso tutto, a chi fra le mani ha soltanto un pugno di sogni. Malavolta ci racconta cosa ancora c’è da scoprire, ci insegna a mettere da parte superficialità e grossolane generalizzazioni. Perché in fondo, noi non sappiamo proprio nulla.

 

Com’è cominciato tutto?

“Strano a dirsi, ma non sono un appassionato di fotografia. O meglio, non soltanto. Sono le immagini ad affascinarmi, di qualunque genere esse siano. Da ragazzo setacciavo i mercatini della città, alla ricerca di vecchi libri fotografici. Collezionavo L’Europeo, L’Epoca e riviste simili: di certo si trattava di pubblicazioni destinate a un pubblico ben diverso, ma a me non importava.

Oltre ventidue anni fa, durante il mio periodo di leva, mi trovai a Brindisi, nella zona portuale. Lì mi imbattei in uno dei tanti sbarchi che si susseguivano in quel periodo: si trattava di albanesi, decine di albanesi diretti in Italia. Non so bene perché, ma cominciai a fotografare tutto quanto. È così che ho cominciato.”

 

Cos’è accaduto poi?

“Ho vissuto nei pressi di Roma, poi in Sicilia. I flussi migratori si susseguivano con una frequenza sempre maggiore e io ero lì per documentare quanto accadeva. Mi riferisco al periodo in cui i profughi si fermavano a Lampedusa, un bel po’ di tempo fa. L’isola è sempre stata luogo di sbarchi: basti pensare ai cimiteri, che hanno ospitano ciò che resta dei rifugiati che non ce l’hanno fatta da oltre un ventennio. Lì ho lavorato per molto tempo.

Ho lavorato per diverse testate giornalistiche, italiane e internazionali e attualmente collaboro con l’OIM (Organizzazione Mondiale per l’Immigrazione) e con l’UMHCR. Entrambe fanno capo alle Nazioni Unite.”

 

Allora è vero: sei proprio il fotografo dei migranti

“Molti mi hanno definito così, è vero. In realtà non mi occupo soltanto di questo, ma naturalmente è un aspetto a cui mi dedico molto. Il mio intento è quello di mettere da parte ogni automatismo e fare irruzione nella vita dei miei soggetti. Non si tratta di una massa informe di gente: ciascuno di loro ha qualcosa da raccontare e le loro storie non sono mai uguali, Spesso non si somigliano neanche un po’. C’è che fugge dalla guerra, chi dall’inedia. C’è persino chi va via in cerca di benessere economico. Molti di loro desiderano parlarmi di ciò che gli è accaduto, dei motivi che li hanno spinti a partire.”

 

Perché mai secondo te?

“Probabilmente cercano di far capire al mondo occidentale le loro ragioni. C’è bisogno di un’Europa aperta e loro vorrebbero che tutti noi ce ne rendessimo conto. C’è il desiderio di far conoscere come si vive altrove: si tratta di storie di violenza e miseria, ed è proprio questa la ragione che li spinge a parlare. Ritengono che questa sia la strada giusta per sensibilizzare noi europei ai loro problemi. Forse hanno ragione.

Non tutti però vogliono parlare di sé. Alcuni di loro hanno una paura tremenda.”

 

Paura di cosa?

“Che ci siano ripercussioni naturalmente. Si pensi agli Eritrei: a diciassette anni i ragazzi sono costretti ad arruolarsi: da quel momento in poi diventano proprietà dello Stato, seppur non formalmente. La leva può durare decenni, senza che ci sia alcun compenso. Questo induce i giovanissimi a fuggire. Ebbene, loro chiedono di non essere ripresi né fotografati: se venissero riconosciuti dalle forze dell’ordine eritree, ci sarebbero senza dubbio ritorsioni su amici e familiari.  Naturalmente in casi del genere ci asteniamo persino dall’inquadrarli. Sarebbe una mancanza di rispetto, assolutamente ingiustificabile.”

 

Cosa pensi si aspettano di trovare qui?

“Le garanzie d cui non hanno potuto mai godere. La vita, insomma. La gente fugge per non morire: l’unica cosa che desiderano è condurre un’esistenza normale. E si aspettano anche di venire accolti in Europa, o almeno se lo augurano.”

 

Ed è davvero così difficile per l’Europa venire incontro alle loro necessità?

“No. Almeno non a livello pragmatico. L’Italia al momento ha gli standard d’accoglienza migliori dell’intero continente. Il vero problema è quel che accade dopo, nella quotidianità: la nostra non è una società disposta all’accettazione, purtroppo. Li ghettizziamo, talvolta senza rendercene conto. Non siamo disposti a considerarli parte della nostra comunità. È vero, talvolta qualcuno di loro si dimostra un po’ più insistente nel chiedere qualche soldo per strada, ma non dimentichiamoci che sono costretti farlo. Sono disperati. Noi non abbiamo idea di cosa significhi.”

 

Cosa rispondi a chi sostiene che i migranti sottraggono posti di lavoro agli italiani?

“Che non è vero affatto. I migranti attualmente producono un PIL pari a 8,5 miliardi annui. Svolgono mansioni che i nostri connazionali non considerano nemmeno: si accontentano di paghe ridotte, davvero ridotte.

Molti ritengono che trascorrano le loro giornate in alberghi a cinque stelle, con ogni genere di confort: ebbene, non è per niente così. Si tratta di strutture che vengono convertite in centri d’accoglienza e che consentono ai proprietari, italiani s’intende, di incassare un bel po’ di denaro.

E poi, noi cosa facciamo di così diverso? Quanti di noi vivono altrove? Si pensi soltanto all’Inghilterra: il numero di italiani residenti a Londra è davvero esorbitante. E, si badi, noi non fuggiamo dalla guerra, né dalla miseria. Desideriamo soltanto migliorare la nostra condizione economica e lo facciamo senza remore. Nessuno si preoccupa di sottrarre posti di lavoro alla popolazione inglese.”

 

È innegabile però che l’Italia ha dovuto far fronte ad un flusso migratorio non indifferente negli ultimi mesi. Qual è la strategia migliore rendere tutto più semplice?

“C’è chi parla di carenze infrastrutturali, ma non si tratta di questo. L’Italia ha tutte le strutture che occorrono per far fronte ad una situazione simile. Il problema risiede nella lentezza con cui l’Europa sta affrontando la questione. Lo smistamento nelle varie nazioni europee non è stato affatto semplice sinora. Se lo fosse stato, se le autorità di competenza si fossero preoccupate di velocizzare il sistema buro

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cratico, adesso non staremo qui a parlarne. Del resto l’Italia rappresenta un Paese di passaggio: i rifugiati non desiderano rimanere qui, non è questa la loro destinazione finale. Sono perfettamente consapevoli di quale sia la condizione economica italiana, non hanno alcuna opportunità di crescita nel nostro Paese. Eppure sono costretti a rimanerci, non possono andare da nessun altra parte.”

 

Nel tuo blog scrivi che quello migratorio non è un flusso idraulico. Cosa intendi dire?

“Sento la gente lamentarsi, sempre più spesso. Sento uomini e donne al mercato o alla fermata del bus che brontola: sono stanchi, ogni giorno uno sbarco, non se ne può più. Quello che questa gente dimentica e che i rifugiati che quest’oggi hanno raggiunto le coste italiane non sono affatto gli stessi di ieri. E che i morti di oggi, non sono quelli di ieri. Non hanno lo stesso nome e anche se ce l’avessero le loro storie sarebbero diverse.

Certo, ricevere quotidianamente la medesima notizia, sentir parlare i telegiornali del medesimo fenomeno giorno dopo giorno induce la gente a disinteressarsi al problema, a considerarlo soltanto uno dei tanti mali che affliggono la nostra società. Questo atteggiamento però è assolutamente controproducente. Sarebbe invece giusto chiedersi come mai eventi del genere si ripetano con una frequenza così alta, quale sia la ragione di un aumento così allarmante ed improvviso degli sbarchi. Naturalmente volgere lo sguardo altrove è sempre più semplice, per tutti.”