Di Emanuele Midolo 29 Novembre 2011
Svetlana Iosifovna Stalina, poi Lana Peters, era l’ultima figlia del dittatore e politico bolscevico Iosif Vissarionovič Džugašvili, meglio noto come Stalin. Negli anni sessanta la sua decisione di rifugiarsi negli Stati Uniti fece scalpore. Divenuta scrittrice, pubblicò due autobiografie di grande successo. E’ morta lo scorso 22 novembre nel Wisconsin, ma la notizia è stata resa nota solo oggi. La biografia di una donna che ha vissuto tutte le tragedie del secolo breve.
Nata nel 1926 dal matrimonio con Nadežda Allilueva, la seconda moglie di Stalin (figlia del rivoluzionario Sergei Alliluyev, poi segretaria personale di Lenin), Svetlana rimase presto orfana della madre. Nadežda, che aveva solo 31 anni, fu trovata morta nella sua stanza dopo un litigio col marito.Accanto al suo corpo, a quanto pare, un revolver scarico. Ma nessuno accertò mai se si fosse trattato di suicidio o omicidio.
Quel che è certo è che quell’unione forzata si fece sentire nell’infanzia della piccola Svetlana. Cresciuta, insieme al fratello Vasily Iosifovich (morto in carcere nel 1962 per complicazioni dovute all’alcolismo) con domestiche e levatrici, la bambina vide raramente suo padre. A 16 anni, ancora ragazzina, si innamorò di un regista russo di 46 anni, Aleksei Kapler, ma il padre si oppose fermamente alla loro unione. Qualche anno più tardi Kapler venne condannato a scontare dieci anni di esilio in Siberia.
Sposatasi a 17 anni con uno studente di Mosca, Grigory Morozov, ebbe il suo primo figlio nel 1945. Fu battezzato Iosif, come Stalin. Lei e Morozov divorziarono nel 1947, mentre nel 1949 fu “promessa” a Yuri Zhdanov, figlio del braccio destro di suo padre, Andrei Zhdanov. L’anno seguente nacque la sua seconda figlia, Yekaterina, ma anche il secondo matrimonio non ebbe fortuna.
Stalin morì il 5 marzo 1953 a 74 anni, dopo tre lunghissimi giorni di agonia dovuti ad un colpo apoplettico che lo paralizzò a letto. Fu proprio Svetlana, anni dopo, a raccontare nei particolari le ultime ore del dittatore sovietico nel suo libro autobiografico: “Venti lettere ad un’amica”. Colpito da emorragia celebrale, Stalin era ormai in preda al delirio. Dal letto di morte maledisse i generali sovietici venuti a rendergli omaggio, accusandoli di averlo tradito.
Dopo la morte del padre, Svetlana rimase diversi anni a Mosca, occupandosi della crescita dei suoi due figli. Parlava fluentemente tedesco, inglese e francese, e si mantenne da vivere lavorando come traduttrice. Nel 1963 si innamorò di Brajes Singh, un comunista indiano in visita nell’URSS. Ma la burocrazia del regime che suo padre aveva contribuito a creare impedì ai due di sposarsi. Singh morì pochi anni dopo, nel 1966, e solo a quel punto a Svetlana venne concesso un viaggio in India. Come scrisse in seguito, benché lei e Singh non si fossero mai sposati, fu il suo viaggio di nozze.
Proprio in quell’occasione venne avvicinata dall’ambasciatore americano a New Delhi. Le venne offerta protezione, insieme all’asilo politico negli Stati Uniti. Per gli USA si trattò di un’operazione di propaganda irripetibile. Partita dall’India alla volta di Roma, poi in Svizzera, Svetlana raggiunse New York nell’aprile 1967. I suoi figli, ormai adulti, scelsero di rimanere in Unione Sovietica.
Nel 1970 conobbe e sposò William Peters, un architetto americano allievo prediletto di Frank Lloyd Wright. Da lui ebbe la sua terza figlia: Olga. Svetlana, diventata ormai Lana Peters, visse tra gli Stati Uniti e l’Inghilterra, esorcizzando con la scrittura i fantasmi del suo passato.
Ritornò in URSS, ormai prossima alla dissoluzione, solo nel 1984. Passò due anni in Georgia, a Tbilisi, non lontano dalla città natale di quel padre che fu all’origine di tutte le sue tragedie. “Non puoi rammaricarti per il tuo destino”, ha scritto, “ma io mi rammarico del fatto che mia madre non abbia sposato un falegname”.
E’ morta lo scorso 22 novembre, a 85 anni, in un ospedale del Wisconsin. I parenti non hanno voluto confermare la notizia, annunciata dalle autorità locali dopo giorni di voci non-ufficiali. Un estremo atto di affetto nei confronti di una donna cui è toccato in sorte di soffrire le tragedie più grandi del novecento.