I numeri sono importanti. Sui numeri non si scherza. E non si può mentire. E se due, ventitré, duecentoquattro, millesedici persone osservassero su una lavagna il medesimo numero, tutti concorderebbero sul valore del numero stesso. D’altronde i numeri sono numeri, mica parole. Ma – si, perché c’è sempre un ma in sto paese di trote ai governi regionali e fascisti mangia asini -, ma, appunto. Ma, in fondo, alla fine, tutto sommato, i numeri non vanno presi troppo sul serio. E guai a considerarli cosa certa, vi dico. A maggior ragione qui in Italia, dove il tg5 cambia magicamente nome in tg70%dispaziotelevisivoalcavaliere, dove le cifre degli appalti della protezione civile tendono ad (infinito) – al pari dell’inettitudine dell’opposizione in questa beneamata Repubblica, per intenderci – , e dove, neanche terminati gli spogli elettorali per le elezioni regionali e già parte la bagarre sui dati. Provvisori e definitivi, assoluti e relativi, veri e falsi. Lo scontro è accesissimo dentro ai televisori degli Italiani, ed è avvincente come ogni politicante declami i propri – presunti – trionfi, e porti i propri – molto più che presunti – numeri. I numeri, quelli che contano. Numeri che contano, si, ma mica così tanto! Non è per nulla il caso di attaccarsi ai cavilli, di – come direbbe qualcuno – “anteporre la forma alla sostanza”, i numeri al loro proprio significato intrinseco. Un significato che varia da parte a parte, è chiaro! E chi si attacca ai numeri, alle percentuali, alle statistiche, non va da nessuna parte, e qua la lezione l’hanno capita bene tutti.
Fra domenica 28 e lunedì 29 marzo c.a. si è votato in 13 Regioni, 4 Province e 462 Comuni. Elezioni che, a due anni dalla vittoria politica del centrodestra, avrebbero dovuto rappresentare il giudizio – a dire dei berluscones – degli italiani nei confronti del Governo del Gran Capo. Ma, d’altra parte, non importa chi abbia vinto, perché la necessità che traspare fin da subito nei salotti televisivi farciti di facce palesemente turbate e fintoserie, dove infuriano i commenti delle star di Montecitorywood e dei gran signori di BeverlyMadama Hills, è far sapere chi non ha perso. E ognuno lo sa che, in fondo, non ha perso; e ci tiene a farlo sapere ai propri tifosi! Visibilmente non ha perso il Pdl, e men che meno la Lega Nord, ma neppure l’Italia dei Valori si è mal comportata, e nemmeno il Partito Democratico – a fidarsi del suo (leader?) – ha perso il confronto regionale, e ovviamente non ha perso L’Udc, che ha guidato trionfalmente alla vittoria – come afferma un Buttiglione visibilmente stancato da quasi vent’anni di impegno politico-religioso – ogni coalizione con cui si è schierata.
E poi ci sono i numeri sulla lavagna, e non si scappa. Indubbiamente il Popolo dell(a) Libertà esce più o meno indenne dal voto, pur perdendo il 5,6% dei consensi rispetto alle europee e il 6,6% rispetto alle politiche del 2008, “ultima ruota del carroccio” (cit. ellekappa) di Bossi, che guadagna il 7% dei voti in più rispetto alle ultime elezioni regionali del 2005. Dall’altro lato il Pd subisce un crollo dell’8,1% di adesioni rispetto alle ultime politiche, e l’IdV mostra il suo andamento altalenante, guadagnando il 2,3% rispetto alle scorse regionali, ma perdendo lo 0,9% dalle europee. In mezzo – o meglio, da una parte e dall’altra – l’Udc si tiene stabile intorno al 6% di voti totali. I risultati reali la dicono chiara: al centrosinistra 7 regioni, al centrodestra 6. Prima di queste, sulle 13 regioni complessive in causa, 11 si trovavano sotto un’amministrazione di centrosinistra, e 2 soltanto sotto il centrodestra. Questi sono dati reali, da paese reale, con una politica reale. Ma la cosa non ci riguarda, perciò!
Circa le 18 di lunedì 29 e – manco a dirlo – partono i giudizi su spogli appena cominciati. E l’accanimento a difendere i propri risultati è straziante. Se La Russa si scatena affermando che “comunque vada loro hanno già raddoppiato le regioni che governavano” e che in Lazio, tenere duro fino in serata sarebbe stato un miracolo, con la Polverini che correva da sola dopo il sopruso subito dalle liste Pdl a Roma, Fassino si concentra sui “dati reali” puntando sul fatto che “intanto stavano 7 a 4”; affermazione che però è prontamente controbattuta da un Formigoni straconfermato in Lombardia, che asserisce provocatoriamente che “il numero di abitanti della sua regione supera la somma degli abitanti delle regioni amministrate dal centrosinistra”. Ed è emozionante sentirli parlare. Quasi come leggere i giornali la mattina dopo. “La destra vince sul carro di Bossi” per La Repubblica, “Vincono Berlusconi e la Lega” annuncia telegraficamente il Corriere della Sera. E chi può dargli torto. Nella serata di lunedì il centrodestra ha strappato per una saliera di voti il Lazio e il Piemonte alle precedenti amministrazioni di centrosinistra, che si vanno dunque ad aggiungere alla Campania ed alla Calabria, vinte in partenza dagli autogol dei candidati e dai partiti. Il governo ha vinto, c’è poco da fare. Ma, tornando al martedì, le soddisfazioni non mancano, fra stampa e tv. Immancabile, comincia a tirare le somme il sempre impassibile Bersani – per chi non lo rammentasse, il segretario del Pd – , affermando, con la serenità – e il senso di tenerezza che trasmette a chi lo vede – che lo contraddistingue: «Se non abbiamo vinto, non si può certo dire che abbiamo perso. Abbiamo anzi invertito la tendenza, e possiamo diventare il primo partito d’Italia». No comment. Poi ci pensa il Senatur a farmi saltare sulla sedia, dichiarando che Zaia (eletto governatore in Veneto), già ministro dell’agricoltura, “non lascerà il proprio ruolo” – la poltrona, dico io – “e ad esso accompagnerà l’impegno” – (lo so, questa parola avrei dovuto censurarla) – “da governatore”. Tutto questo a solo una settimana dalle rivelazioni shock di Report sui doppi incarichi dei nostri amministratori. Fortemente perplesso, me ne faccio una ragione quando scopro che Brunetta e Castelli, candidati sindaco rispettivamente a Venezia e Lecco, e purtroppo traditi dal grande Nord, avevano anch’essi “lealmente” – per usare parole dello stesso Castelli – dichiarato che, diventati sindaci, non avrebbero assolutamente rinunciato ai loro incarichi di governo e parlamento. Finita la cena ho un certo stimolo. Prendo il giornale – ne scelgo uno particolarmente ispirante – e mi reco alla postazione di riflessione. “Berlusconi e Bossi volano”, è questo il titolo di prima pagina de Il Giornale di Vittorio Feltri. Sfoglio, leggo, mi sforzo – neanche più di tanto – . E scopro che “non si può rovesciare il governo a colpi di Spatuzza e D’Addario” e che “i gufi” antiberlusconiani “sono stati sconfitti”, e che, se l’IdV sale rispetto alle scorse elezioni, il quotidiano che stringo in mano – affiancato dalla più illustre fonte d’informazione del paese, Studio Aperto – incalzano il partito con la sconfitta “incredibilmente” subita a Montenero di Bisaccia, città natale di Antonio Di Pietro. Comune di 6.762 abitanti, ma decisivo – a quanto pare – per le sorti del paese.
Scopro anche che l’astensionismo è figlio degli “interventi a gamba tesa” della magistratura e degli scandali della Chiesa – (boh) – , ma che comunque è normale perché “l’interesse degli elettori è solo per le politiche”; e importante non dimenticare che “in Slovacchia l’astensionismo fu all’81,36% alle ultime amministrative”. La Slovacchia, nuovo punto di riferimento per i confronti europei del nostro paese.
In Italia effettivamente è solo un cittadino su tre che non si reca alle urne, con un’affluenza del 64,2% alle Regionali (72% nel 2005),del 68,3% alle Provinciali (73,4%), e del 74,4% alle Comunali (77,5%). E se per Bossi l’astensionismo ha una ragione “meteorologica”, la verità che il sistema di rappresentanza ha fallito. La percezione di un potere lontano ed estraneo, che si legittima nella consuetudine e nel lassismo, nell’incapacità di indignarsi. Un sistema che trae la sua forza dal clientelismo diffuso, dalla morte dei partiti e da un bipolarismo disgregante – al contrario di quello che ci vogliono far credere – in un paese che va alle urne per votare contro, per sparare al nemico. Uno Stato in cui non vota il 35,2% dei cittadini perde chi governa, e chi fa opposizione. Perde la politica tutta. Sessanta milioni di schede bianche alla prossima tornata. Sessanta milioni di buchi al parlamento, per fargli respirare un po’ di democrazia.