41 bis – i confini della dignità

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“Sono la più forte contraddizione delle sbarre, i libri.

Al prigioniero steso sulla branda spalancano il soffitto”
(Erri De Luca)

 

 

 

La legge è uguale per tutti” – si legge in tutte le Aule di Giustizia.

Questa frase è sempre lì, in bella vista, impressa generalmente dietro le teste dei Giudici o davanti ai Loro solenni tavoli, a ricordare agli astanti che, non importa chi tu sia, la Giustizia arriverà, indistintamente, perché tutti, al Suo cospetto, siamo uguali.

E questo senza dubbio è rassicurante. Per tutti.

Per gli operatori del diritto, ma anche, e, soprattutto, per i cittadini, per quel popolo, in nome del quale la Giustizia è amministrata.

E’ confortante sapere che ciascuno avrà quel che si merita, che sia una condanna o una assoluzione, che, di fronte a casi uguali, la risposta dello Stato, seppur con qualche approssimazione legata alla discrezionalità che i varchi interpretativi della Legge il più delle volte lasciano al Giudice, sarà la medesima.

Trattare tutti allo stesso modo, senza distinzioni.

Ma talvolta l’uguaglianza si assicura anche attraverso la differenziazione del trattamento.

Sembra un paradosso, ma, a pensarci bene, forse non lo è.

E nella fase esecutiva della pena, questo principio discretivo sembra farla da padrona.

Si stilano programmi individualizzati calibrati sul singolo, perché “il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto“, si osservano i suoi progressi, i suoi deficit, le sue mancanze, i suoi bisogni, si prescrive il da farsi per il risanamento e il suo nuovo debutto in società.

Per esigenze dell’Amministrazione Penitenziaria, però, si creano circuiti differenziati, delle specie di gironi danteschi, nell’ambito dei quali tutti coloro che li abitano sono trattati in egual maniera, tutti sono soggetti alle medesime prescrizioni, un modo questo per ribadire, anche a processo finito, che la legge, dinanzi a situazioni uguali o, almeno, assimilabili,  rimane uguale per tutti.

Si segue la logica dei multi-livelli, con restrizioni sempre più strette man mano che si sale al vertice, fino a giungere all’Alta Sicurezza, che comprende al suo interno il famigerato e più discusso regime, il carcere duro, il più duro di tutti, quello che, non so dire perché, tutti, anche i non addetti ai lavori, identificano con la norma che lo prevede , il 41 bis.

Un regime talmente stringente che solo 12 istituti penitenziari in tutta Italia lo contemplano: L’Aquila, Cuneo, Marino del Tronto, Novara, Parma, Pisa, Rebibbia, Secondigliano, Spoleto, Terni, Tolmezzo, Viterbo.

Era stato pensato come un regime speciale e a termine, introdotto in anni difficili per lo Stato italiano, alle prese, dapprima, con il terrorismo e poi, negli anni ’90, con la lotta alla criminalità organizzata.

A mali estremi, estremi rimedi.

La sua nomenclatura – “situazioni di emergenza” – la dice lunga sulla sua funzione.

Ma anche quando l’emergenza – tutto sommato – è rientrata, il carcere duro, a colpi di proroghe, è sopravvissuto.

Vive tuttora.

Ed è così che, non solo “in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza“, ma anche nei confronti di condannati per  reati di particolare allarme sociale (leggasi criminalità organizzata e delitti ad essa riconducibili o assimilabili) “quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica“, il Ministro della Giustizia può sospendere in tutto o in parte il trattamento penitenziario ordinario.

E’ una sorta di atto di imperio, non di natura giurisdizionale, ma ministeriale, eserciatato senza contraddittorio: il detenuto si ritrova un bel giorno rinchiuso al 41 bis.

Poi, se vorrà, farà reclamo.

Ma fintanto che il Tribunale di Sorveglianza di Roma – e solo quello – non decide –  e i tempi della Giustizia sono noti a tutti – un po’ di carcere duro se lo fa.

Il fine è quello di “impedire i collegamenti con l’associazione” e, dunque, in buona sostanza, evitare che il male continui a proliferare da dentro le prigioni.

Per gli irriducibili del crimine non basta il carcere, serve il carcere duro.

La sospensione dell’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti dell’ordinamento penitenziario, si traduce in condizioni di isolamento pressoché totale, fisico e metafisico.

Era una calda estate di qualche anno fa, in una di quelle giornate trascorse giù al mio amato paese, lontano dal tran tran quotidiano, dove il tempo si dilata ed i pensieri sembrano diradarsi come nubi all’orizzonte.

Mi trovavo seduto al tavolino di un bar a fare due chiacchiere con alcuni  anziani, che nel frattempo giocavano distrattamente a carte, il loro modo, quello, per ammazzare il tempo ed attendere l’ora di cena per rincasare.

Poco dopo entrò una ragazza, una figura minuta, con una cascata di capelli ricci ad incorniciarle il volto, un sorriso aperto, schietto e gli occhi di chi era dovuto crescere in fretta.

Salutò i presenti ed in particolare un suo parente seduto a pochi passi da me.

Mi presentò con orgoglio quella ragazza, che appresi essere fresca di diploma ed in procinto di iscriversi all’università.

A giurisprudenza voleva iscriversi.

Così mi disse, con piglio risoluto.

Si intrattenne per qualche minuto, poi, se ne andò, lasciando i presenti riprendere le loro attività.

La incontrai di nuovo qualche giorno dopo.

Non era certo figlia d’arte, ma masticava già qualche concetto giuridico, lei, senza averlo studiato sui libri, già sapeva più o meno come funzionava un processo, lei, nonostante la sua giovane età, aveva avuto indirettamente a che fare già con avvocati, lei aveva già respirato odore di carcere.

Anche del carcere duro.

Lei era la figlia di un uomo che, nel corso della detenzione, era stato sottoposto per un periodo al 41 bis.

Mi disse tutto ciò tradendo un po’ di imbarazzo, ma, una volta introdotto l’argomento, come se si fosse liberata di un peso, iniziò a raccontarmi  spontaneamente la sua esperienza.

Ciò che mi colpì e che faceva spesso riferimento al periodo in cui il padre era sottoposto al carcere duro.

Intuii che quegli anni erano stati i più difficili.

Fu carcere duro anche per lei.

Me la sono immaginata mentre partiva in treno con la madre da quel paesino sperduto del sud per raggiungere l’istituto penitenziario del nord dove era ristretto il padre per fare il colloquio mensile e vederlo da dietro un vetro.

Solo uno al mese era concesso e solo dietro al vetro, anche quando era una poco più di una ragazzina.

Niente contatti fisici, niente abbracci, niente carezze.

E tutto – molto spesso – dietro all’occhio vigile di una telecamera.

Per diversi mesi io non ho visto mio padre. Saliva solo mia mamma, accompagnata da mio zio. Poi abbiamo iniziato a prendere il treno. Di solito partivamo di notte, io e mia madre, arrivavamo verso le 11.00 della mattina. Se andava bene, una volta al mese” disse.

Sa com’è, avvocato” – fece – “fare questi spostamenti è molto faticoso e poi costa, quindi capitava – ed è capitato spesso – che qualche mese lo abbiamo saltato“.

E allora” – continuò – “ci scrivevamo io e mio padre. Io almeno gli scrivevo sempre, almeno una volta a settimana. Ma la risposta, se andava bene, arrivava in ritardo, altrimenti non arrivava per niente“.

Già, la censura, ho pensato.

Tutta la corrispondenza in entrata e in uscita, non importa da dove arrivi e a chi sia diretta, è controllata preventivamente  nel regime 41 bis.

Spesso basta una parola, un’espressione male interpretata per bloccarla, impedendo così che giunga a destinazione; altrettanto spesso, i tempi per questo stringente controllo sono così lunghi che mucchi di lettere e di pacchi rimangono in giacenza presso gli uffici della burocrazia.

E intanto i destinatari aspettano una risposta che tarda a venire.

Me la sono immaginata, quella ragazza, mentre scriveva nella solitudine della sua cameretta ad un padre che l’aveva lasciata poco più che bambina.

Chissà che avrà pensato chi, una volta arrivata la lettera al penitenziario, l’ha letta per primo, chissà se se la sarà immaginata anche lui, quella ragazzina che, nella sua cameretta cercava, a suo modo, un filo diretto col suo papà lontano.

Me la sono immaginata anche mentre aspettava, per giorni e giorni, il portalettere, che portava tutto, davvero tutto, tranne la lettera del padre.

Da ragazzina ho anche pensato che lui non ci tenesse a me, che mi avesse dimenticato, che quello che mi diceva mia madre, cioè che era tutta colpa delle poste, fossero sciocchezze” – disse.

Ed erano davvero sciocchezze. Non era colpa delle poste, ma del 41 bis che isola chi si trova sottoposto a quel regime fino a renderlo introvabile, quasi irraggiungibile dietro a tutto quel multistrato di ferro, a quelle gabbie dietro ad altre gabbie, effetto Matrioska.

Non sono celle ordinarie, quelle dove si vive il carcere duro, ma generalmente locali con plurime protezioni metalliche ed un occhio vigile, quello delle guardie.

Sorvegliati a vista nel regime di massima sicurezza, dove anche l’aria spesso viene a mancare.

Un paio di ore al giorno di permanenza all’aperto, in gruppi ristrettissimi  di persone.

E’ il massimo che viene concesso ai detenuti nel regime di massima sicurezza.

E poi, avvocato” – proseguì la ragazza, attingendo tra i suoi tanti dolorosi  ricordi di quel periodo – “non le dico che fatica si doveva fare per far arrivare un pacco a papà“.

Non si sapeva mai con sicurezza quali cose potessero entrare“.

Eh sì, perché la legge parla genericamente di limitazioni delle somme, dei beni e degli oggetti ricevuti dall’esterno.

E’ poi il singolo istituto penitenziario a dare forma e sostanza a tale prescrizione, ingenerando, talvolta, anche un po’ di confusione in chi si trova a riempire i pacchi.

Papà aveva chiesto di fargli avere dei giornali, delle riviste, oltre ai suoi indumenti personali, ma poi abbiamo appreso che poco o nulla gli è arrivato…niente roba con i lacci, niente libri con copertine rigide, niente cibi in scatola, nemmeno quei cioccolatini che a lui piacevano tanto“.

Non era infatti inconsueto imbattersi in racconti del genere: in qualche carcere erano considerati “pericolosi” certi alimenti, che invece erano consentiti in altri, così come alcuni capi di abbigliamento, ammessi in taluni istituti penitenziari e proibiti in talaltri.

I libri e le riviste idem, dal momento che l’amministrazione penitenziaria può prevedere il divieto di riceverne dall’esterno e di spedirne all’esterno.

E’ di pochissimo tempo fa la notizia di un Magistrato di Sorveglianza che ha sottoposto la questione alla Consulta.

Ma i Giudici delle leggi l’hanno dichiarata “non fondata” (Sentenza 26 maggio 2017, n. 122).

E ai detenuti al 41 bis non resterà che leggere i testi messi a disposizione dall’istituto penitenziario.

Quelli e solo quelli.

E’ singolare come i Giudici abbiano a preoccuparsi della “dignità dell’aragosta” e non sempre di quella dell’uomo.

Sembra assurdo, ma è così.

Qualche mese fa mi trovavo in Cassazione per discutere un ricorso e, prima che chiamassero il mio procedimento, ho assistito alla accorata discussione di una collega, che rappresentava gli interessi di un’associazione animalista costituitasi parte civile nei confronti di un ristoratore, reo di aver tenuto astici ed aragoste in acqua e ghiaccio con le chele legate.

Appresi dalla stampa, qualche giorno dopo, che la Collega aveva colto nel segno: i Giudici (sentenza 30177 del  17.01.2017) confermarono la condanna dell’uomo, perché – spiegarono – passi che vengano cucinati quando sono ancora vivi, come vuole la consuetudine sociale, ma non possono essere conservati in modo tale da  arrecare loro, “esseri senzienti“, inutili sofferenze.

Tanto basta per integrare il reato di  maltrattamento di animali.

E’ senz’altro apprezzabile la sensibilità che questi Giudici hanno mostrato di fronte alle sofferenze di astici e aragoste, ma sarebbe auspicabile, con i dovuti distinguo, una apertura maggiore nei confronti di altri “esseri senzienti“, gli uomini e le donne che popolano le nostre carceri, la cui detenzione spesso si sostanzia in un trattamento addirittura deteriore rispetto a quello riservato agli animali.

Mentre quella ragazza parlava, con l’anima segnata, ma, tutto sommato  sollevata dal trascorrere del tempo, mi tornò in mente Angelo (nome di fantasia, come al solito, ma non troppo).

Qualche anno prima, per qualche frequentazione discutibile, qualche frase ambigua detta al telefono, sotto interecettazione, era stato arrestato, di notte, in pigiama, mentre dormiva al fianco di sua moglie.

Il collega che l’aveva assistito all’epoca non ci mise poi molto a chiarire la sua posizione, giusto i tempi tempi tecnici, sempre però troppo lunghi, per farsi fissare un interrogatorio dinanzi al P.M. (quello di fronte al GIP, più prossimo all’arresto, non aveva sortito, ahimé, l’effetto sperato).

23 giorni di carcere aveva scontato Angelo.

Ingiustamente, verrà sancito poi, dopo anni ed anni, con un’archiviazione e un procedimento di fronte alla Corte di Appello per la riparazione per l’ingiusta detenzione.

Proprio per questo si era rivolto al mio studio: per vedersi riconosciuta quell’ingiustizia per la carcerazione subita, che poteva cogliersi nettamente dal suo sguardo e dalle parole che tradivano un accento locale, che anche a me è ormai divenuto familiare.

Appresi in quel modo che, non so bene come e per quale ragione, era finito nel reparto di alta sorveglianza, in mezzo ad ergastolani condannati per gravi fatti di sangue.

23 giorni di carcere che lui, che non aveva certo studiato dalle Orsoline, né era solito frequentare gli ambienti bene della città, ha definito i più duri della sua vita.

Soprattutto i primi cinque giorni sono stati un inferno” – raccontava con voce ferma, cercando di rievocarli dal fondo della sua memoria, dove, evidentemente, aveva cercato di spingerli.

Tra le carte che mi aveva portato, nell’ordinanza cautelare, un po’ ingiallita dal tempo, si leggeva “si ritiene di disporre che i medesimi (Angelo ed altri, cui era toccata la stessa sorte, nda)  siano posti in isolamento e che sia dilazionato il diritto di conferire con i propri difensori per giorni cinque a decorrere dalla esecuzione della presente ordinanza“.

Continuava, fermo e risoluto, nel racconto del suo viaggio all’inferno, gli spazi estremamente ristretti, il soffitto basso, il caldo asfissiante, la luce che entrava fioca da una minuscola finestrella in alto con le sbarre, resa ancora più inaccessibile da una schermatura esterna, che non consentiva nessun affaccio sul mondo, neanche su quello del carcere, la piccola branda sulla destra, con un materasso polveroso, a cullare i suoi sogni, le pareti scrostate, ingrigite dal tempo, gli orari cadenzati, la ronda delle guardie, l’odore di muffa e di stantio, che – diceva – ormai, anche a distanza di anni, gli era rimasta nel naso.

Sembrerà brutto dirlo, ma per fortuna che c’erano quegli altri che erano già abituati. Loro hanno cercato di starmi vicino e di spiegarmi come si vive in carcere. Meno male che, tutto sommato, è durata poco“.

Questi altri“, “loro“, erano quelli con un curriculum criminale particolarmente nutrito, che con il carcere, compreso quello duro, avevano ormai una certa confidenza.

Dovrà essergli sembrato un pivellino Angelo, che – raccontava – piangeva tutte le notti, e impiegava le giornate parlando con il vicino di cella, detenuto da anni, forse decenni.

Si era legato talmente a quell’uomo che, una volta riacquistata la libertà – disse – continuava a scrivergli con cadenze piuttosto  regolari, talvolta aveva anche pensato di fargli arrivare dei pacchi, ma, memore dei racconti che gli aveva fatto sulle traversie da compiere per  farsi consegnare qualcosa, e di quanto vissuto, sulla propria pelle, in quei 23 giorni, aveva desistito.

Di averlo perso di vista era stato contento, gli dispiaceva di aver perso i contatti con lui.

Si era interrotta la loro corrispondenza.

Forse era stato trasferito in un altro carcere di alta sicurezza.

O forse, anche in questo caso, era colpa delle poste.

Angelo, che pure aveva respirato un po’ di carcere duro, era per un certo periodo anche lui diventato un po’ come quella ragazza dai riccioli scuri che aspettava la lettera dal suo papà.

Aveva da tempo riacquistato la sua libertà, ora, dopo il riconoscimento della ingiusta detenzione da parte della Corte d’Appello, anche la sua onorabilità.

Rimarrà però segnato da quel carcere duro, mitigato solo dal contatto con l’ergastolano, che, tra ferro, spazi angusti, e puzza di stantio, gli ha mostrato un po’ di umanità.

E poi c’è Carmelo, che di carcere duro ne sa qualcosa per averne fatto tanto.

Carmelo Musumeci, incontrato qualche mese fa in mezzo alla campagna.

Lui è in grado di descrivere – sicuramete meglio di quanto potre i fare io – qual è l’odore del ferro del 41 bis.

Colloqui. Il colloquio ha la durata massima di un’ora. (comma 10 dell’articolo 37 del D.P.R. 30 giugno, numero 230).   

Da pochi mesi sono entrato nel ventiquattresimo anno ininterrotto di carcere e ho una compagna e due figli che mi stanno ancora aspettando.

E purtroppo, la pena dell’ergastolo se non sarà abolita prima, avranno di me solo il mio cadavere.     

Quando mi hanno arrestato, mia figlia Barbara aveva otto anni e mio figlio Mirko, sei; mi sono venuti a trovare in tutte le carceri d’Italia dove sono stato.

Ora mi stanno venendo a trovare anche i miei due nipotini, Lorenzo e Michael, che mi ha dato mio figlio Mirko.

Ho visto crescere i miei figli, e ora i miei due nipotini, tra sbarre e cemento.

I colloqui più brutti li ho fatti quando ero sottoposto al regime di tortura del 41 bis, perché avevo solo un incontro al mese della durata di un’ora.

Incontri durante i quali una parete di vetro mi divideva dai miei familiari.

Mi ricordo, come se fossi ieri, il primo colloquio che ho fatto subito dopo che il Ministro della Giustizia mi aveva sottoposto al carcere duro.

La mia compagna mi era venuta subito a trovare senza i miei figli, perché le avevo chiesto di venire da sola.

A quel tempo, non volevo che i miei bambini mi vedessero attraverso un vetro.

Mi ricordo che quel giorno, come se fosse adesso, mi avevano avvisato di prepararmi verso le undici del mattino.

Dopo una diecina di minuti mi avevano fatto uscire dalla cella.

Mi avevano subito preso in consegna tre guardie, un brigadiere e due agenti scelti.

Di solito, non guardo mai gli occhi delle guardie, ma mi accorsi subito che quelli avevano sguardi cattivi.

Usciti dalla sezione prendemmo un lungo e stretto corridoio.

Girammo a destra, poi a sinistra e subito di nuovo a destra.

In fondo trovammo delle scale.

Salimmo la scalinata e in cima trovai altre guardie che guardavano una videocamera.

Poi sentì il ronzio sommesso del cancello automatico e vidi davanti a me aprirsi un grosso cancello. Lo attraversai e subito mi presero in consegna altre guardie che mi portarono in una stanzetta per la perquisizione.

Mi fecero spogliare nudo e ispezionarono con attenzione tutto il mio vestiario.

Dopo mi fecero rivestire e attesi un quarto d’ora davanti a una porta blindata che assomigliava a quella di una banca.

E mi venne da pensare che sembrava uguale a quella che avevo trovato anni prima durante una rapina alla Cassa di Risparmio di Milano.

Mi batteva forte il cuore, mi capitava sempre tutte le volte che la mia famiglia mi veniva a trovare e quella volta ancora di più.

A un tratto il blindato si aprì automaticamente ed entrai dentro la sala colloqui.

E attesi che si aprisse la porta che vedevo di fronte a me.

I locali colloqui degli “Assassini dei Sogni”, come  chiamo io le carceri, si assomigliano quasi tutti, ma mi viene in mente che la sala visite del carcere di massima sicurezza di Cuneo era ancora più brutta e spoglia di tutte le altre.

Notai che non c’erano finestre e che c’era un odore di sofferenza.

Non attesi molto e quando vidi entrare la mia compagna nel locale colloqui cercai di sorridere perché non si accorgesse che ero preoccupato.

Ci riuscii.

Lei indossava un pesante cappotto che le stava molto bene.

Aveva l’aspetto stanco, ma era bellissima.

La vidi infreddolita e preoccupata.

Mi ricordai che quella mattina presto, quando avevo aperto la finestra della cella, c’era un vento gelido e nevicava leggermente.

E mi si gelarono prima il sangue, poi le ossa e infine il cuore a pensare a tutta la lunga strada che aveva fatto per vedermi per solo un’ora di colloquio.

Lei appena vide lo spesso vetro davanti si portò le mani al viso e sgomenta scrollò leggermente la testa.

Io allargai impotente le braccia.

Era  la prima volta che ci vedevamo senza poterci abbracciare e vidi passare nei suoi occhi un’ombra di sgomento.

Sapevamo entrambi cosa stavamo pensando.

Lei mi mandò un bacio con un dito con un’espressione corrucciata.

Io feci altrettanto con due dita.

Poi dalla mia postazione alzai il citofono.

Lei fece altrettanto dalla sua.

Parlammo contemporaneamente.

Poi ci fermammo.

E ci guardammo dritti negli occhi.

Prima di riprendere a parlare le sorrisi di nuovo.

– Amore, come stanno i bambini?

E compresi subito che il mio sorriso non l’aveva ingannata perché anche lei sorrise con la mia stessa espressione triste.

– Benissimo … mi hanno detto di dirti che ti vogliono tanto bene e ti mandano tanti bacini.

Capii all’istante che nei nostri sorrisi c’era la preoccupazione per i nostri figli che sarebbero cresciuti senza il loro papà accanto.

– A chi li hai lasciati?

E che li avrei potuti vedere poco, e sempre con un vetro davanti, senza poterli mai abbracciare nè toccare.

–  Stai tranquillo, non ti preoccupare, me li sta tenendo mia madre.

Mi sentii le gambe molli.

– A che ora sei partita da casa?

E decisi di sedermi.

– Alle cinque, per fortuna ho trovato poco traffico.

Lei fece altrettanto.

– Hai trovato tanta neve per strada?

Dai suoi occhi capii che si rimproverava di avermi lasciato fare le scelte sbagliate che avevo fatto.

– Un po’, ma per fortuna non c’è stato bisogno di mettere le catene, avevo paura di non arrivare in tempo.

Volevo farle una carezza per consolarla, ma non potevo perché c’era un maledetto spesso vetro davanti a me che me lo impediva.

– Come ti hanno trattato le guardie?

E  l’accarezzai con gli occhi.

– Bene, non mi hanno però fatto passare la roba da mangiare, hanno preso solo la roba da vestire e non tutta.

Che altro potevo fare?

– In questo regime purtroppo tante cose non ci sono più permesse, pensa che non possiamo neppure farci un caffè in cella, ma non ti preoccupare, piuttosto sono in pensiero per te e i bambini.

Non potevo fare altro.

– Per me e i bambini stai tranquillo, riusciamo ad andare avanti benissimo, hanno imprigionato te, ma non il tuo amore che è rimasto libero  in casa con noi.

A parte il male che li facevo continuando ad amarla.

– Amore, lo sai che non ho più speranza, che ci sono tutte le intenzioni di farmi  morire murato vivo in una cella.

Scossi lentamente la testa.

– Tesoro, non dire queste cose, non  possiamo arrenderci, io ed i bambini ti aspetteremo tutta la vita.

Mi guardai intorno smarrito.

– Amore è molto difficile che facciano uscire un ergastolano.

Poi fermai il mio sguardo su di lei.

– Tesoro, sono sicura che un giorno ritornerai a casa, è solo questione di tempo. Sì, il tempo, il maledetto tempo. E’ lui il nostro nemico.

Mi passai una mano fra i capelli.

– Amore, quando penso che i nostri figli cresceranno e tu invecchierai senza di me sto male come un lupo bastonato.

Era difficile dirle quelle parole.

– Tesoro, non fa nulla, la cosa più importante e che il mio cuore è pieno del tuo d’amore e  l’amore dona la libertà a chi ama e a chi viene amato.

Accennai a un fugace sorriso.

– Amore, ricorda sempre ai bambini quanto li amo. 

Ed annui.

– Tesoro, non c’è bisogno che glielo ricordi perché lo sentono e lo sanno già.

Mi sforzai di apparire fiducioso anch’io.

Mentre parlavamo, una parte di me era tornata indietro nel tempo, mi ricordai del giorno che mi avevano arrestato.

E dell’ultima notte che avevamo fatto l’amore.

L’avevamo fatto così bene che mi venne il dubbio che forse i nostri due cuori sapevano già che quella sarebbe stata l’ultima volta.

Mi ricordai del suo odore, del profumo dei suoi capelli e del sapore delle sue calde labbra.

E anche dal vetro, in quel momento, mi sembrò di sentire il suo cuore battere.

Questo mi fece male.

Mi sembrò di sentire un pugno nel cuore.

Pensai che nella mia vita ero stato felice solo accanto a lei.

E che era la cosa più bella che mi fosse capitata nella mia esistenza.

Poi le osservai una mano.

E pensai in quel momento che avrei dato dieci anni della mia vita per coprirla anche un solo istante con la mia.

A un tratto alle mie spalle la porta si aprì e capii che l’ora di colloquio era finita.

– Amore, da voci di corridoio ho sentito che a giorni mi deporteranno nel carcere dell’isola dell’Asinara, in Sardegna, e non voglio che tu e i bambini mi veniate a trovare in quel brutto posto.

Mi sentì cadere il cuore.

– Tesoro, chiedimi tutto, ma non questo perché ho intenzione di venirti a trovare anche in capo al mondo.

Deglutii con fatica.

– Ti amo.  

Mi si inumidirono gli occhi, ma non versai lacrime perché non avrebbero dato valore al dolore che provavo.

– Anch’io.

Rimasi seduto ancora qualche istante senza staccare lo sguardo da lei.

– Stai attenta e vai piano con la macchina.

A un tratto, da un microfono uscì una voce che gridava che la visita era finita, mi venne voglia di spaccarlo, ma lasciai perdere.

– Non ti preoccupare, stai tranquillo.

La mia voce diventò un bisbiglio.

– Bacia i bambini da parte mia.

Poi mi alzai, trassi un respiro profondo e appoggiai le labbra al vetro.

– Lo farò, ma tu ricordati sempre che  hai messo il tuo cuore al posto del mio e io il mio nel tuo.

Lei fece altrettanto.

– Abbi cura di te, sei l’ultima persona a cui penso prima di addormentarmi.

E ci demmo il bacio più bello della nostra vita. 

  Poi uscii dalla sala colloqui a passi veloci perché non vedevo l’ora di andarmi a chiudere nella mia fossa per essere di nuovo seppellito.

In un certo senso a volte le tombe danno sicurezza anche se sono di ferro e cemento.

Rientrai in cella.

Appoggiai la testa al muro.

Chiusi gli occhi e mi misi ad ascoltare il silenzio fitto dell’Assassino dei Sogni.

Non so neppure adesso per quanto tempo rimasi in quella posizione, a pensare che non avevo nessun barlume di speranza a parte la certezza di essere amato.

Quella era la condanna che mi avrebbe fatto continuare a vivere anche nei momenti in cui non ne sarebbe valsa la pena.

Infatti dopo ventiquattro anni di carcere sono ancora vivo.

Il carcere alla lunga ti divora l’anima, ti mangia il cuore, ma non può fare nulla contro l’amore, può solo farti amare di più quello che ami.

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