Gabriele Fabiani è un giovane di Castiglione Cosentino (Cs), ventisettenne, scrittore, video maker, laureato in Storia. Un ragazzo come tanti che se ne vedono in giro. Mi si presenta con un gran sorriso e una ventata di allegria spazza il caldo opprimente dei primi giorni di settembre in una Corso Mazzini ritornata alla normalità e affollata dopo le ferie estive. La nostra intervista si svolge seduti ai tavolini di un bar gustando un coppetta gelato.
Gabriele ha lavorato in diversi call center sparsi tra Cosenza e Rende e da queste esperienze ne ha tratto un libro: “Yes we call. Vita di un operatore call center”, uscito a febbraio di quest’anno ed edito dalla casa editrice Periferia.
Prima di scendere nei particolari vorrei chiederti come mai hai deciso di intitolare il libro “Yes we call”, riprendendo e modificando il motto di Obama “Yes we can”.
Devo ringraziare per il titolo un mio amico al quale è venuta questa idea mentre chiacchieravamo. È vero “Yes we call” riprende l’espressione di Obama “Yes we can”, si noi possiamo che esplicita la carica che ci viene data nei call center. “Yes we call” (si noi telefoniamo) è sia la carica che prende l’operatore call center sia un occhiolino simpatico per chi viene incontro al mio libro. Mi è sembrata una trovata geniale. Il titolo rievoca anche il tormento per chi riceve la telefonata da parte degli operatori.
Da cosa è scaturita la volontà di scrivere il libro. Un libro verità, di denuncia aperta e non velata. Il libro sembra quasi un diario di viaggio nei vari call center, ma poteva divenire anche un romanzo. Perché hai scelto questa forma quasi d’inchiesta?
Originariamente era nato come un racconto della storia di un operatore tipo di call center, però poi era sempre autobiografica, avrei cambiato il nome del protagonista ma alla fine ero sempre io. Ho capito che non aveva senso adottare quel tipo di narrazione. Era meglio che il lettore avesse un dialogo con me, che sapesse che ero proprio io a raccontare quella storia. È nato perché ero stufo della gente che non conosce questo mondo. Spesso mi sono sentito dire dagli altri che nei call center ci pagano e non facciamo niente che è un semplice lavoro di ufficio. Non è vero. Noi non ci spacchiamo la schiena come i muratori ma non vanno tralasciati alcuni piccoli dettagli: è un lavoro stressante, mal pagato, schiavizzante che col tempo arriva a creare dei problemi di salute non indifferenti. Con alcuni colleghi siamo andati a scoprire quali sono le malattie più diffuse tra gli operatori call center: sono quelle che prendono il sistema nervoso, le corde vocali, l’udito. Molte persone hanno smesso di lavorare perché hanno iniziato ad avere tic nervosi, non riuscivano a dormire la notte, erano nervosi e non riuscivano più a interloquire con gli altri. Le cose caratterizzanti i lavoratori dei call center sono il linguaggio usato e il modo di parlare. Io stesso mi accorgevo che quando parlavo con le persone durante il periodo della mia permanenza nei call center il mio modo di parlare era velocizzato, infatti a casa molte volte mi dicevano di rallentare e parlare più piano. È proprio il ritmo che si va a prendere. Stanco di tutto ciò mi sono detto che era giunta l’ora di raccontare la mia storia, di raccontare quello che succede nei call center, qual è la verità delle cose poco chiare che ci costringono a fare e del sistema marcio di cui siamo testimoni. Io non ha mai condiviso la passività delle cose e ho sempre reagito. A qualsiasi call center ho lavorato non mi sono lasciato sottomettere, a volte ho girato i tacchi e me ne sono andata tranquillamente. Per reagire uno deve conoscere, deve sapere quello che fa. Purtroppo chi è dentro il call center non se ne accorge, non hanno la volontà di ribellarsi perché sono convinti che sia un lavoro temporaneo. Ma un lavoro temporaneo non può durare dieci anni. La schiavitù non può durare così tanto e non bisogna concedersi così tanto a un titolare che guadagna il triplo se non il quadruplo su quello che fa un operatore. E da qui comincia la mia storia. Sono andato in un call center perché volevo alleggerire le spese per le tasse universitarie dalle spalle di mio padre. Ho pensato che se riuscivo a lavorare e a studiare potevo essere una persona migliore di quanto mi sentissi in quel momento. Invece non avevo capito che i miei avrebbero preferito pagare le tasse solo per tre anni e vedermi laureato prima e non vedermi cadere in questo giro rallentando i miei studi. Uno pensa che quattro ore siano poche e di riuscire a conciliare sia l’università che il lavoro nel call center, ma non è così perché una volta che si è dentro risucchia in un vortice tutto te stesso. Vai per quattro ore ma poi l’azienda ti chiede dello straordinario e tu rimani li, inizi a perdere i corsi, gli appunti, la voglia di fare gli esami. Il soldo in tasca ti fa sentire più libero di uscire, perdi il senso dell’orientamento che è quello che è successo a me. Io non mi sono fermato a un call center ne ho girati tanti, ho scritto alcuni libri nel frattempo. Ho deviato un po’ dal mio progetto iniziale che era la laurea; infatti mi sono laureato tardi anche per quello. Per me una volta fuori corso era diventato un obbligo non potevo chiedere più soldi ai miei genitori. Mi sentivo con la coscienza sporca e allora dovevo lavorare nei call center. Per racimolare qualche soldo quel tipo di lavoro è l’unica cosa che si trova. Ora sempre meno assumono con contratti a progetto, ma prendono con i tirocini, con gli stage o i contratti di apprendistato. La maggior parte dei call center chiudono qua e aprono in Albania perché lì pagare gli operatori costa ancora meno. È semplice vedere come un call center di Roma in cui lavoravano persone con un contratto regolare a tempo indeterminato ha messo in cassa integrazione i propri dipendenti chiudendo lì e aprendo a Cosenza perché gli costava di meno. Noi non ci ribelliamo; ma i sindacati a Cosenza e a Rende non compiono adempiono alla loro funzione di tutela dei lavoratori. I sindacati non sono attivi nei call center.Non possono andare alle manifestazioni a Roma e non portare alcun operatore call center. Non posso sentirmi dire da un sindacalista che il contratto a progetto è giusto perché non lo è. I call center vengono foraggiati dalle regioni, prendono fondi per avere i computer, le strutture, infatti molti dopo i 5 anni chiudono. Questa non è una politica per incrementare l’occupazione giovanile. È solo un gioco al massacro. Andrebbe rivisitato il sistema universitario che non crea coscienza, persone che sanno, che riescono a criticare la società ma crea macchinette che imparano a memoria delle nozioni. L’università mi dovrebbe far uscire diverso e migliore rispetto a come sono entrato. Così nei call center incontri diplomati, laureati alla magistrale anche con 110 e lode ma anche padri di famiglia o persone di una certa età, li vedi battere sulla tastiera del computer con un solo dito e uno come me pensa di essere davvero arrivati a livelli pietosi. Non si può lasciare in mezzo a una strada un cinquantenne o un sessantenne. Quella della crisi a volte sembra una scusa perché quando un paese entra in crisi i suoi cittadini reagiscono mentre qui tutto tace, quasi a subire la crisi volontariamente e passivamente. I giovani non sono quelli che vanno a fare i vandali nelle manifestazioni, ma i veri giovani, quelli che dovrebbero essere il motore di questo paese, sono rinchiusi nei call center a lavorare. I giovani non sono vagabondi ma sanno anche che un contratto a progetto non vale a nulla ma va onorato, che il call center è una lavoro da schiavi ma va onorato lo stesso perché è sempre lavoro. Io alcune volte facevo questo. È bene che le persone siano informate su quanto accade nei call center. “Yes we call” serve a far conoscere ai genitori cosa fanno i propri figli, a far capire ad un politico cosa vuol dire lavorare in un call center e perché non funzionano le cose, a far capire a quelli che dicono che il lavoro nei call center è quasi un lavoro per smanettoni geni del computer che non è così. Ci sono call center che si occupano del recupero crediti ed entri nella vita delle persone e capisci che i macchinoni che si vedono in giro non sono il frutto di una bella vita ma spesso di finanziamenti non pagati. Il nostro è un Paese con un alto tasso di ignoranti, molte volte la gente firma senza capire cosa effettivamente stia firmato. Il recupero crediti ti catapulta in un mondo inimmaginabile. Un operatore pur di guadagnare è costretto ad assumere determinati atteggiamenti e comportamenti. Io ero uno che recuperava poco perché non riuscivo a essere incisivo, a me dispiaceva che le persone non riuscissero a pagare. Affianco a me invece c’erano operatori che martellavo i cattivi pagatori con continue telefonate. Il call center ti autorizza a fare di tutto e di più e non c’è nessuno che interviene. Siamo proprio abbandonati a noi stessi. Ci sono stati anche casi di call center chiusi per infiltrazione mafiosa mentre la classe politica è occupata a fare altro e perde il filo che la lega alla comunità curandosi solo dei loro amici. La politica è nata per curare gli interessi della comunità non dei singoli.
Che sentimenti provavi la mattina quando entravi nel call center e la sera quando uscivi?
Era più facile la mattina entrare nei call center che uscire la sera per quanto riguarda i sentimenti perché la mattina quando si inizia a lavorare c’è uno spirito diverso, si affronta tutto in maniera più riposata perché si arriva dal riposo notturno. Invece poi quando si entra con la porta che ti divide dal mondo esterno, il battere i tasti, la pulizia inesistente inizi a chiederti chi te l’abbia fatto fare. Man mano che telefoni ti accorgi di stare sbagliando. Ti danni l’anima. Ti arrabbi anche con i clienti che non si abbonano. Io potevo pure convincere il cliente ma io quell’abbonamento non l’avrei mai fatto. La sera invece te ne esci distrutto mentalmente, stanco, si ha la voglia di rilassarsi ed evadere anche se a volte è difficile. Io me ne andavo triste, malinconico perché non era la vita che progettavo, quello che volevo. Avevo comunque la consapevolezza che il giorno dopo sarei riandato. Come scrivo nel libro: “Domani mi troverete di nuovo lì con il sorriso telefonico”, sorriso che ci viene insegnato nei corsi di formazione. Abbiamo pause cronometrate, quindici minuti ogni due ore, è tutto inquadrato. Se il sistema call center fosse riportato nelle pubbliche amministrazioni funzionerebbe tutto in maniera più spedita. È una organizzazione inquadrata in tutto dalla mattina appena si entra e bassi il badge al momento in cui esci. La tua vita è programmata e non devi andare oltre al compito che ti viene dato. Anche quando si parla con il cliente devi seguire il discorso che l’azienda ha preparato e che tu operatore hai imparato a memoria, le parole chiave, i loro metodi di comunicazione. Alla persona nel call center viene rubato lo spirito, la capacità di iniziativa. È come la catena di montaggio, devi mettere quel pezzo e lo devi avvitare e devi fare quell’operazione per trecento volte al giorno. Stessa cosa è il call center. Ti fermi quando hai pausa, sai che il team leader cronometra quanta pausa fai, controlla quante telefonate prendi e fai, il tempo che ci impieghi. Praticamente sei controllato in ogni movimento che fai quasi come nel Grande Fratello, solo che lì i concorrenti sono consapevoli di avere puntate le telecamere mentre noi abbiamo i team leader che ci vengono alle spalle incitandoci a fare sempre di più e che sono in possesso di una serie di dati su noi operatori utili per stilare della graduatorie interne per scegliere chi continuerà a lavorare e chi no. Quando tornavo a casa mi sentivo un completo fallimento perché centoventiquattro euro non mi cambiavano la vita; ma dall’altra parte mi dicevo: «A casa che ci sto a fare?». Ho mandato curriculum a tutti anche alle ditte di pulizie oltre che ad altri call center, ma dopo l’uscita del libro in pochissimi mi hanno richiamato. Ogni tanto li mando anche per scrupolo. Gli ultimi due anni ho cercato di continuare a tenermi aggiornato sui contratti e sulla formazione che fanno. La formazione non è mai retribuita nei call center. Ogni tanto vado anche per capire come vanno le cose e tastare il termometro a che temperatura è, ma siamo sempre statici. Ci vorrebbe un input dall’esterno, una nuova rivoluzione culturale. Eravamo noi lavoratori più “anziani” a dire alle nuove leve di andarsene, di pensare allo studio, magari di laurearsi e andare a lavorare fuori. Dove finiremo? Buh non lo so. Secondo me dobbiamo fare una rivoluzione non armata ma sempre una rivoluzione culturale. Se vogliamo un mondo migliore il cambiamento deve partire da noi stessi. Così se vogliamo cambiare le cose nei call center la “rivoluzione” deve partire dall’operatore, chiudiamo i cancelli e scendiamo in piazza a protestare, mobilitando tutta l’Italia. Gli ideali politici non esistono più, altrimenti i call center dovrebbero essere il pane quotidiano di un centro sinistra che si definisca tale. Io abito ancora a casa e alcune volte mi sento bamboccione non per mia volontà ma perché sono senza lavoro. Io invio tra i dieci e i quindici curriculum al giorno e ancora aspetto di essere richiamato.
Chantal Castiglione
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