Giuseppe Di Lello: Bisogna recidere il legame tra mafia e politica

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“Sulla strada, prima o poi, verranno anche le istituzioni liberate, dalla loro funzionalità al potere mafioso e finalmente si romperà quella perversa coincidenza di interessi tra governo della società e criminalità”. Queste parole che si leggono nel libro Giudici di Giuseppe Di Lello, ex magistrato, una delle anime del pool antimafia, racchiudono forse meglio di altre la sintesi di un evento storico che tutti si aspettano: la morte della mafia. Il percorso però è ancora tortuoso e lungo, non perché la lezione di Falcone e Borsellino non è stata recepita, ma perché quel legame assai fitto tra mafia e Stato è ancora indissolubile. Scorrendo le pagine del libro si capisce però che la storia d’ Italia e di Sicilia è ricca di episodi in cui la storia del malaffare ha trionfato sulla giustizia e i giudici hanno lasciato un inesorabile vuoto semantico. La mafia si espandeva, mentre i processi venivano smembrati in mille rivoli. E’ successo anche al pool:”Il 26 novembre Giovanni Falcone,- si legge nel libro- alla presenza della Corte d’appello, resosi conto che la partita è persa, firma una pace separata con Meli accettandone le regole auree secondo le quali noi avremmo dovuto istruire il processo mentre Meli si riservava le decisioni. In una successiva riunione Falcone ci comunica che bisogna lavorare per il re di Prussia procedendo allo stralcio degli atti di centinaia di imputati a seconda del tribunale di appartenenza, […] a quel punto Giacomo Conte ed io non abbiamo nessuna esitazione a ribadire il nostro dissenso su tutta l’operazione, pace separata inclusa, e usciamo da quello che ormai di pool ha solo il nome”. La forza del pool in effetti subisce gravi attacchi e lo stesso Falcone viene più volte delegittimato ma nonostante tutto lui e Paolo Borsellino – come ribadisce Di Lello- ci hanno creduto fino in fondo: Cosa Nostra non poteva mantenere un vantaggio sullo Stato e l’opera del maxiprocesso non doveva essere vanificata.

 A distanza di ventun’anni siamo ancora qui a interrogarci: chiuso questo libro edito nel 1994 e riletto per l’anniversario delle Stragi, siamo andati a intervistare Giuseppe Di Lello. Uno dei pochi che mantiene un ritratto lucido di quegli anni.

La storia della mafia è costellata da episodi di connivenze e accomodamenti. Molte figure sono rimaste impunite e speso la macchina giudiziaria non ha fatto il suo corso. Cosa è cambiato dal ‘ 92 a oggi. Quanto è diventato più forte il legame fra mafia e stato?

Dal ’92 è cambiato molto, nel senso che anche la magistratura dopo le stragi si è impegnata molto. Il modello di Falcone è diventato europeo, universale. Però bisogna dire che la mafia non si combatte solo sul piano giudiziario, andrebbero attivati altri corpi dello Stato. C’è una forte Defeillance. Alla mafia si è permesso di espandersi finanziariamente, di essere pervasiva e di espandersi in tutti i gangli vitali dell’amministrazione. Questa mafia in uno stato di crisi pazzesca dispone di una liquidità immensa da investire. Se non riusciamo a capire come la mafia sia arrivata anche a nord, dove i malavitosi stanno spadroneggiando siamo ad un punto morto. Possiamo tranquillamente dire che la mafia è più forte di prima, nonostante nel corso degli anni di ci sia stato qualche tentativo inasprimento delle pene, penso alla confisca. L’altra cosa che è necessario ribadire è che la politica deve pensare a depurarsi da quelle connessioni mafiose.

Si parla spesso di riforma della giustizia, ma le leggi approvate nel corso degli anni hanno allungato i tempi dei processi e reso più difficile il lavoro dei magistrati. Cosa servirebbe per contrastare al meglio la criminalità organizzata?

Bisognerebbe difendere fino alle estreme conseguenze l’assetto costituzionale della magistratura. Il ruolo dell’indipendenza deve tornare ad essere centrale. Poi credo che deve essere rafforzato il ruolo del Csm, anche se spesso vive dei momenti di carenza per le varie correnti che lo hanno lottizzato. Ma ripeto che bisogna tornare all’indipendenza assoluta. Non si può indebolire il ruolo dei pm e della giurisdizione. Ci vogliono poi più mezzi e uomini nel contrasto. In Italia sia nel campo del diritto civile che in quello penale abbiamo una paralisi del sistema giudiziario. E’ ridicolo che un processo duri sei anni. Negli altri paesi queste cose non succedono.

L’esperienza del pool ha rappresentato un modo nuovo di combattere la mafia. Quali sono i ricordi di quegli anni e secondo lei chi ha ereditato la vostra tensione morale?

Il lavoro del pool è stato innovativo. Si è scoperto che si poteva arrivare a contrastare la criminalità organizzata. Proprio per questo il modello è diventato nazionale. La magistratura odierna agisce come Falcone e Borsellino. Io gli eredi li vedo in tutti. Anzi, dico che bisogna avere fiducia nel lavoro di tutta la magistratura.

Cosa pensa del processo sulla trattativa Stato-mafia?

Io ne so quanto i giornalisti. Sono d’accordo sul fatto che è un processo molto complicato e sono contento che il Gip abbia deciso per il rinvio a giudizio. L’impianto non è molto solido, ma le critiche sono costruttive. Il caso Mori è illuminante perché delinea uno scenario un po’ diverso, nel senso che bisogna aspettare le motivazioni. C’è una discrezionalità nella scelta e nei modi che non può essere criminalizzata.

Lei conclude il suo libro dicendo :” Non è ancora detto che si vinca ma nemmeno che si perda”. La mafia può davvero essere sconfitta?

Io credo di sì. Il problema è che la politica si è mischiata troppo con la mafia. Negli altri paesi una politica collusa scompare, in Italia invece rischia di far carriera. Andreotti è il caso di chi doveva scomparire dalla scena politica mentre nel nostro paese ha fatto carriera. Pian piano riusciremo a creare un opinione pubblica che conta come negli altri paesi e anche la mafia morirà. Claudia Benassai

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