Gli SPRAR e il buco nero del business

Mettere piede all’interno di uno SPRAR, nel ruolo di cronista, non è semplice. Come non lo è parlarne e raccontarne la storia, soprattutto quando non è possibile obliare sulle relative zone d’ombra. Pochissimo tempo fa il presidente della Consulta delle Culture, Adham Darawsha, ha paventato il rischio di chiusura dei centri nel palermitano per mancanza di soldi, invocando chi di dovere a stringere la morsa sulla lentezza della burocrazia per non rischiare il collasso dell’intero sistema.

Il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR) è una rete di centri di “seconda accoglienza” destinata ai richiedenti e ai titolari di protezione internazionale. Ecco perché dovrebbe essere finalizzato non all’assistenza primaria a favore delle persone che arrivano sul territorio italiano, ma all’integrazione sociale ed economica di soggetti già titolari di una forma di protezione internazionale (rifugiati, titolari di protezione sussidiaria o umanitaria). Eppure, osservando la realtà quotidiana, sembra che gli SPRAR siano stati trasformati in mal rattoppi sui buchi del sistema “primario” di accoglienza.

I progetti finanziati prevedono l’accoglienza di singoli e/o famiglie in appartamenti o in centri collettivi, e lo svolgimento di una serie di attività per favorire la loro integrazione sul territorio.

Secondo i dati forniti dal Ministero dell’interno, a novembre 2016 risultano finanziati 652 progetti (508 ordinari, 99 per minori non accompagnati, 45 per persone con disagio mentale o disabilità) affidati a 555 enti locali titolari di progetto (491 comuni, 27 Province, 13 Unioni di Comuni, 4 Comunità Montane e 20 altri enti tra ambiti territoriali e sociali, consorzi intercomunali, società della salute). Risultano così finanziati 26.012 posti (23.399 ordinari, 2.039 per minori non accompagnati, 574 per persone con disagio mentale o disabilità).

Questi sono numeri accompagnati da cifre in euro vertiginose che sembrano spingere parte dell’aiuto umanitario nel buco nero del business. Basti pensare che, secondo i dati forniti dall’APS Lunaria, in totale, tra il 2005 e il 2012, le risorse pubbliche destinate alle politiche di accoglienza ed inclusione sociale straordinaria dei cittadini stranieri sono state pari a 2 miliardi e 313 mila euro. Mentre l’ammontare delle risorse “ordinarie” è stato pari a 791 milioni e 708 mila euro, con una media annuale pari a 123 milioni e 871 mila euro.

Esistono risvolti numerosi e troppo difficili da semplificare senza il rischio di banalizzare. La popolazione autoctona accetta i funerali, anzi esprime cordoglio e solidarietà sui sudari poggiati sulla faccia dei migranti morti a mare, ma quando è tempo di aiutarli da vivi, diventa tutto molto più complicato e spesso inaccettabile. A maggior ragione se di mezzo ci sono soldi. E i soldi, alla luce di questa devastante crisi che ha colpito tutta l’Europa, rappresentano il sistema binario di “inclusione-espulsione”, prodotto dalla legge della sopravvivenza.

Chi riesce a non trovare una tomba in mare aperto arriva sulle nostre coste e dopo l’accoglienza primaria potrebbe ricevere quella secondaria dello SPRAR. Da questo momento, si accendono i riflettori non sulla necessità di offrire aiuto umanitario, ma sull’opinione che tale aiuto genera. Opinione che viene farcita di luoghi comuni, polemiche, razzismi (il plurale è d’obbligo) e vere e proprie zone d’ombra generate dallo stesso sistema. Così, in questa roulette russa alla tempia dei migranti, vince chi spara il pregiudizio più grosso. Pregiudizi che si muovono di bocca in bocca, come fosse la nenia dei grani di un rosario. Coperta da questi feroci giudizi esiste una situazione difficile per gli stessi migranti, che “tirano a campare” in questi SPRAR a causa dell’assenza di soldi che limita molto il campo di azione, incluso quello che riguarda addirittura la soddisfazione dei bisogni primari.

 

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