Il boato e poi l’assenza: Giampilieri tre anni dopo.

Il re leone, il gobbo di Notre Dame, Robin Hood sono adagiati sullo scaffale; Riposti in modo ordinato. Sotto ci sono le audiocasette.

Tutto attorno però è maceria, fango e distruzione.

Resta poco di quest’abitazione che ci rapisce lo sguardo, qualche oggetto quotidiano: scarpe e peluche. Oggetti che, restituiscono quel che era e non c’è, in uno scenario, quello di Giampilieri, che assomiglia a un insediamento preistorico, dove sopravvive qualche porta, qualche finestra, qualche pezzo di muro, e dove uomini donne e bambini sono state spazzati via dalla furia dell’acqua e del fango. “C’erano case qua, ci dicono i paesani”. Gli occhi stentano a credere. Intanto, sono trascorsi tre anni, da quel terribile giorno e il ricordo della tragedia è radicato nella coscienza dei testimoni silenziosi: quelli che hanno perso la moglie, il fratello, il figlio o l’amico. La cerimonia d’apertura si apre con una sola consapevolezza: il dovere della memoria: “È doveroso ricordare tutte le nostre vittime: le nostre che sono diciotto e le altre diciotto dei paesi vicini.

Ci stiamo riuscendo a mettere il paese in sicurezza, ma pian piano la preoccupazione sta invadendo la nostra gente. Il 31 ottobre finirà lo stato d’emergenza. Rimarremo senza casa e senza contributo. Il nostro auspicio è che vengono dati in appalto i lavori di riqualificazione urbanistica. La via chiesa è il nostro Viale San Martino. In piazza Pozzo giocavamo a ‘chiappatella e calcetto”. Purtroppo, tra le strade della cerimonia registriamo voci preoccupate, come quella di Giovanni Gualberti, settantadue anni, che vive ora la vita da alluvionato con una pensione risicata: ”Io vivo con 308 euro di pensione. La mia casa sarà demolita. Per le istituzioni questa vale un euro, ma io ci ho investito i miei sacrifici e quarantatré anni della mia vita. Io chiedo, una casa, quella che mi è stata strappata, seppur modesta per tornare alla normalità.

La parola “normalità” è sulla bocca di molti abitanti. Qualcuno stanco di aspettare ha badato a proprie spese a ristrutturare la casa, come la signora Santa Pantò, che osserva le celebrazioni dalla finestra di casa sua, impossibilitata a uscire dall’abitazione: “Io e mio marito, abbiamo scelto di tornare qui, nella nostra casa. Abbiamo fatto una vita di sacrifici e quel giorno abbiamo perso tutto. Ma noi almeno possiamo raccontarlo. Il peggio purtroppo è per quelli che sono morti. Qui purtroppo la ricostruzione procede a rilento, si iniziano i lavori e non si finiscono”.

Lo sguardo degli abitanti è commosso quando il vescovo Lupo, parla di resurrezione e di sepolcro vuoto: segno della rinascita di Cristo. È la speranza che insomma impera oggi a Giampilieri, nelle parole bibliche, nel sorriso dei ragazzi che hanno riempito la piazza della chiesa e nelle fiaccole accese. L’auspicio è che quando le candele si spegneranno, e i riflettori dei mass media saranno puntati su altre vicende, la politica si ricordi della propria città, delle promesse non mantenute e dei sogni infranti. Del resto, purtroppo, la nostra è un’isola che muore e sembra morire anche in assenza delle calamità naturali.

Lo dimostrano i tre lunghi anni in cui la battaglia per le rivendicazioni ha ceduto lo spazio al sordido silenzio.

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