IL BUSINESS DELL’ ANTIMAFIA.

0
524
- Pubblicità-

9 marzo 1996, sulla Gazzetta ufficiale viene pubblicata la legge 109/96. Il percorso iniziato nel 1982 con la legge 642/82, più conosciuta come legge Rognoni-La Torre, arriva a un momento di svolta. Dopo 14 anni, l’iter iniziato con la legge che introdusse i provvedimenti per il sequestro e la confisca dei beni di origine mafiosa sembra giungere a un decisivo completamento. Verrà infatti disposta la restituzione alla collettività dei beni confiscati alla mafia. Una vittoria che profumava di rivincita. La possibilità di restituire legalità a quanto costruito con l’illegalità, la violenza, la paura. Ma quello che si presentava come la giusta conclusione di un percorso legale ineccepibile, si trasformerà ben presto in un calderone dal quale tutti, in un modo o nell’altro, vogliono attingere.

Il business dell’antimafia. O meglio, la mafia dell’antimafia. Prendendo in prestito l’espressione elaborata dalla redazione di Telejato, emittente televisiva con sede a Partinico (Pa), si parla di mafia dell’antimafia per riferirsi a quel fenomeno che vede coinvolti magistrati, amministratori giudiziari, forze dell’ordine e politici in un banchetto composto da beni mobili e immobili, un tesoro da miliardi di euro. A farne le spese, gli stessi lavoratori, le stesse famiglie il cui futuro viene demolito da chi, quel futuro, avrebbe dovuto garantirlo.

Una macchina dagli ingranaggi ben rodati, che seguono dall’inizio alla fine il percorso che va dal sequestro fino alla confisca, per giungere alla restituzione di beni ormai violentati, devastati, smembrati. Un bene sottoposto a sequestro, se dimostrato che di provenienza illecita, dovrebbe per legge essere confiscato e restituito alla collettività. Mai l’uso del condizionale è stato più appropriato. “Dovrebbe”, perché gli amministratori giudiziari nominati appunto per amministrare il bene in oggetto “dovrebbero” mantenerlo intatto. Lo spettacolo cui si assiste è ben diverso. “Dovrebbe” essere un iter molto celere, ma assistiamo a beni sottoposti a sequestro da 17 anni. E qui scatta il business, l’affare da miliardi di euro. A partire dai compensi: un amministratore giudiziario viene retribuito in rapporto al valore del bene sequestrato, che di conseguenza cresce esponenzialmente. “La DIA, la guardia di finanza dichiarano valori 10 volte superiori all’effettivo valore del bene” dichiara Pino Maniaci, direttore di Telejato, da anni in prima linea nella lotta alla mafia con l’unica arma del giornalismo, quello vero. “Quando sento che in Sicilia vengono confiscati beni per 1 miliardo e 600 milioni di euro, mi viene da riflettere. Poi vengo a scoprire che quel bene in realtà era del valore di 500 milioni di euro, che diventano 1 miliardo e 600 milioni. Questo perché il perito che dovrà andare a valutare la provenienza e il valore di quel bene, viene retribuito con il 5% del valore del bene stesso”. Ecco che, magicamente, un impero commerciale sottoposto a sequestro triplica il proprio valore. Ma questo non è che il primo passo di un piano di arricchimento degno di un genio della contabilità. Torniamo al bene sotto sequestro e immaginiamo che sia costituito da una ventina di aziende. L’amministratore giudiziario del caso viene retribuito 2500 euro al mese ad azienda. Si parla di cifre ingestibili che necessitano della presenza di 3 coadiutori, anch’essi profumatamente pagati: 1500 euro al mese, sempre ad azienda ovviamente.

Un esempio concreto, del quale si è ampliamente occupata la redazione di Telejato: Castelvetrano. Nel 2013 verrà confiscato a Giuseppe Grigoli, prestanome del latitante Matteo Messina Denaro, un impero commerciale da 700 milioni di euro e 500 dipendenti. Nel giro di due anni, un impero completamente fallito, devastato, distrutto, prosciugato. I 500 dipendenti? Tutti a casa. 500 famiglie lasciate sul lastrico. “L’amministratore giudiziario Nicola Ribolla – continua Maniaci raccontandoci delle sue indagini – è stato capace di far sparire 14 milioni e 500 mila euro dai conti correnti”.

Cifre che confondono, ammutoliscono. Ma soprattutto spaventano. Macchinazioni che rendono palese l’impossibilità alla fiducia nei confronti delle istituzioni, quelle che dovrebbero garantire la legalità, ma sembrano sguazzare indisturbate nell’assoluta illegalità. Indisturbate, appunto. “La cosa più grave è che riescano ad attuare certe macchinazioni nel nome della legge. – continua Maniaci – Lo Stato consente tutto questo grazie a magistrati molto leggeri, se non collusi. Io queste cose le ho dette e mi aspettavo di tutto. Un mandato di arresto, querele. Dire a un magistrato che è un ladro è reato di vilipendio e prevede l’arresto immediato. Io ho solo avuto una denuncia per stalking da Cappellano Seminara (amministratore giudiziario attualmente coinvolto in un processo che si sta celebrando a Roma sulla discarica rumena di Klina che nasconderebbe parte del tesoro di Ciancimino, ndr). Se mi denunciasse per diffamazione dovremmo andare a processo e io dovrei dimostrare che quello che ho detto è la verità, ovvero che ruba e si è arricchito con i beni sequestrati”. Affermazioni forti, coraggiose. Un coraggio che non si ferma alla volontà di smascherare e smuovere le coscienze.

Togliere il velo può sembrare impossibile, ma renderlo trasparente, questo si può fare. Si può dire che le misure di prevenzione di Palermo gestiscono il 40% dei beni sequestrati in tutta Italia. Si può dire che si tratta di un tesoro che vale dai 30 ai 40 miliardi di euro. Si può dire che l’economia di un’intera provincia è nelle mani di un tribunale che può decidere di far fallire o arricchire una provincia. Fallire appunto. Perché le imprese falliscono, vanno in rovina per un’economia nera, per le banche che chiudono le porte nel momento in cui subentra lo Stato, mentre per il mafioso, quelle porte erano spalancate. “Come dire che una banca dà più fiducia al mafioso che allo Stato” afferma con non poca ironia Pino Maniaci, che contro queste dichiarazioni continua in riferimento al caso di Castelvetrano: “In quel caso non si  può parlare di economia nera. I dipendenti avevano tredicesima e quattordicesima, erano messi in regola. E allora c’è qualcosa che non va, visto che Ribolla prelevava 50 mila euro al mese e le aziende erano una ventina. Poi ha fatto scomparire 14 milioni di euro, poi ha svuotato i magazzini e cominciato a licenziare persone e ad assumere i suoi parenti, poi ha pagato 3 coadiutori per le venti aziende a 1500 euro al mese per ogni azienda. Come dice la legge, i beni confiscati, come quello di Grigoli, vanno restituiti alla collettività integri perché devono creare posti di lavoro. Sui beni sequestrati in Italia si sono persi 80mila posti di lavoro. In Italia il 90% dei beni confiscati falliscono. E non per l’economia nera, ma perché sui beni si arricchiscono magistrati e amministratori giudiziari”. E di fronte a questo non si può che parlare di casta, quindi intoccabile, quindi invincibile. “Gli amministratori giudiziari vengono nominati e sono figli di magistrati, figli di cancellieri, figli di avvocati, figli di finanzieri. Addirittura coadiutori diventano carabinieri, finanzieri, poliziotti. E’ diventato un business”.

E non è finita. Il 70% dei beni sottoposti a sequestro ritornano al legittimo proprietario. Solo il 30% va a confisca definitiva. Ciò porta a individuare un errore del 70%, un gap insostenibile se si pensa che in quel 70% sono comprese aziende e attività di onesti lavoratori prosciolti dalle accuse, che si vedono privati del proprio lavoro. Questo perché, per legge, è sufficiente il sospetto per avviare il sequestro, e l’accusato deve dimostrare personalmente l’origine lecita dei beni in oggetto, al contrario della procedura penale che prevede l’intervento di un pm. Inoltre, anche nel caso di un’assoluzione, le misure di protezione possono negare la restituzione dei beni. “E i beni appartenenti a quel 70% che viene restituito – sottolinea Maniaci –  sono ridotti al nulla, perché gli amministratori se li sono pappati. Il bene viene restituito fallito, devastato, il lavoro di una vita ridotto al nulla. Puoi chiedere il risarcimento. Dopo 10 anni di processo sulle misure di prevenzione aspetterai altri 10 anni per il rimborso”.

E tutto questo potrebbe finire, dando senso alla posizione del procuratore Gratteri in merito alla chiusura della DIA. Basti pensare a Serpico, programma in uso dalla guardia di finanza che permette di ricostruire la vita di un individuo dalla sua nascita al momento in cui si effettua l’indagine. Uno strumento che legge la vita, la ricostruisce riuscendo a sapere quanto denaro si è avuto a disposizione, cosa si è acquistato, di cosa si è in possesso, se si hanno prestanome, proprietà, terreni, case. Tutto. “Se lo usassimo su un presunto mafioso, perché dovremmo passare dal sequestro quando potremmo andare direttamente alla confisca? – Si interroga Maniaci – Perché non evitare completamente il sequestro? Perché non si usa? Perché così continuiamo a far arricchire la mafia dell’antimafia.” E il gioco continua.

“La cosa che mi fa rabbia – continua Maniaci – è che non interviene nessuno. Io denuncio il tribunale di corruzione e nessuno fa niente, vi chiudete nella casta. Non mi convoca nessuno. Così diventi il solo che grida nel deserto. A chi dovremmo appellarci? Non a Renzi sicuramente. La magistratura non si tocca. Quindi il governo non farà nulla, non cambierà questa legge. Siamo nella terra del Gattopardo dove si cambia tutto per non cambiare niente. Con questo non si vuole dire che la magistratura sia tutta corrotta. Ma solo che in ogni contenitore c’è una mela marcia.  Se una legge chiara e definita sulla corruzione, sulla loro corruzione non c’è, questo deve fare capire tutto”.

E si continua a parlare di una mafia che si trasforma, che si adatta per diventare sempre più invisibile e sempre più forte. Una mafia che nasconde il proprio operato dietro una toga, o dietro un amministratore di giustizia. Quella giustizia di cui si prende gioco, utilizzata per plasmare le coscienze, per oscurare il potere bianco con il potere nero. Lo Stato è presentato come il ladro, la mafia come il compromesso che garantisce il lavoro. Quando la mafia amministra l’economia funziona, quando subentra lo stato il lavoro non c’è più. “Quando c’era la mafia si lavorava, ora non si lavora più. Meglio la mafia” si sente ripetere Pino Maniaci da quanti disperati si ritrovano senza un lavoro. E il suono di quelle parole rimbomba anche nelle orecchie di chi la mafia non l’ha conosciuta mai, se non tramite quanto visto nei film o letto sui giornali. E’ un potere che si fa forte per mezzo di quelle realtà che dovrebbero sconfiggerlo: “La mafia ha scoperto l’antimafia. Molte associazioni sono ormai contenitori vuoti. Partono bene, e poi scoprono che usano l’antimafia per far soldi” conclude Maniaci. “A me girano i coglioni quando sento il proliferare del termine antimafia. Io vado oltre, essere antimafia dovrebbe essere nel cuore di ogni cittadino onesto, senza bisogno di questa tiratura, di questa denominazione”.

Ma come Pino Maniaci, tanti altri tra giornalisti, magistrati, finanzieri, poliziotti, compiono il proprio dovere nel rispetto di una volontà, di una coscienza che punta alla legalità. Una legalità che non si fregia dell’appellativo ‘antimafia’, ormai inflazionato e ridotto a un marchio come potrebbe essere il DOC per un vino, ma si dichiara semplicemente e fermamente ‘contro la mafia’.

Noi, siamo contro la mafia.

Gaia Stella Trischitta

- Pubblicità-

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento!
Inserisci il tuo nome qui