Il concetto di campo e i processi di disumanizzazione

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Se si cerca la parola “campo” sul vocabolario davanti ai nostri occhi si palesano una miriade di significati.  Eccone alcuni:

«Campo: porzione di terreno o di territorio. Superficie agraria delimitata, coltivata o coltivabile. Area opportunamente delimitata e adattata per usi particolari. Vasta area destinata ad accogliere un ingente numero di persone per varie ragioni lontane dai luoghi di residenza. Campo di concentramento per prigionieri di guerra o internati civili. Campo di annientamento, di eliminazione, di sterminio, quelli attrezzati dai nazisti per la soppressione in massa dei loro avversari politici e razziali.»

Questa parola può ispirare sia un senso di libertà che di oppressione, di chiusura, di perdita della libertà, di sfruttamento e di vessazione.

Campo di concentramento, di sterminio, di lavoro, campi di identificazione ed espulsione, medesima genesi, medesima disumanizzazione.

Si assiste ad una mutazione antropologica dell’uomo-recluso, dell’uomo-schiavo in un oggetto, in un oppresso, in un “essere di meno” che ormai si è lasciato divorare totalmente dall’oppressore, spogliato, anzi derubato della propria umanità che stenta o scientemente decide di non reagisce più.

Si perde la concezione di sé, di quello che si è realmente. Ci si guarda con gli occhi dell’oppressore, divenendo anche per se stessi la proiezione di un feticcio, di una cosa priva di valore. Ci si autoconvince di essere inferiori, nati al contrario, sbagliati, malati, lebbrosi senza segni apparenti, rifiuti sociali.

La disumanizzazione è un processo che pian piano logora, annienta, cancella, automizza. Si viene trasformati in non persone, in scheletri vaganti, occhi spenti e anima persa. Numeri della vergogna tatuati su un braccio, merce, braccia da lavoro, messi ai margini, ghettizzati e rinchiusi ieri come oggi in campi. Cambiano i bersagli, i nemici immaginari, rimane la medesima cattiveria e inumanità. La prevaricazione dell’uomo sull’uomo. Di chi si sente superiore per razza, colore della pelle, religione e massacra chi da loro viene considerato inferiore, malato, debole.

Viviamo in una continua “arianizzazione”. Quello attuale non è più fascismo bensì nazismo. Non ci sono più le docce tramutate in camere a gas perché anche quel tipo di sistema si è evoluto, ma ha creato nuovi e più subdoli metodi per annientare l’essere umano.

L’essere umano che dovrebbe essere considerato quale pietra angolare su cui poggiare le nostre società viene abbandonato e lasciato morire in un lager, in un campo di arance, di pomodori o rinchiuso in un “centro di accoglienza”, che non ha nulla di accogliente, in cui gli ospiti sono costretti a permanere senza diritti, senza dignità.

La morte che giunge inesorabile non è solo quella fisica del corpo, del cuore che smette di pulsare. C’è una morte più atroce che si prova da vivi, una morte quotidiana dettata dall’odio, dall’indifferenza, dalle sevizie, dalle minacce. L’anima muore, si spegne. Non si esiste più. Si diviene carne da macello, carta straccia, vuoti a perdere alla deriva della storia, fantasmi della non memoria, lapidi senza nome, massificazione, perdita d’identità, larve, carcasse che aspettano solo di essere divorate da avvoltoi senza scrupoli padroni del mondo e delle vite degli altri.

La perdita dell’identità passa per la perdita del nome, quindi della propria storia personale, della propria vita, della propria individualità e unicità. Ogni persona dovrebbe essere qualcosa di unico e irripetibile, un’opera d’arte, la bellezza non più effimera ma materiale, tangibile, concreta; invece guardandoci attorno vediamo masse informi, uomini, donne e bambini costretti dagli eventi a vivere in un limbo, quello dei dimenticati, dei “fratelli figli unici”, di chi ha lasciato ogni speranza fuori dalla porta, di chi ha sognato un futuro migliore scappando dalla propria terra e trovandosi ad essere imprigionato appena giunto in quella da lui immaginata come terra promessa, di riscatto e di emancipazione.

Lo sterminio non ha avuto fine con l’apertura dei cancelli ad Auschwitz il 27 gennaio 1945 così come i campi non hanno cessato di esistere, se ne costruiscono sempre di nuovi ad imprigionare e ghettizzare le “diverse” umanità.

I luoghi comuni usati come armi di distruzione di massa, giustificazioni per commettere le più oscene meschinità, sono utili ai potenti, ai nuovi nazisti, ai capo’, ai media per restituirci un’immagine deviata e deviante del nuovo deportato. Colpevole di esistere, di essere venuto al mondo. In un mondo sbagliato.

E così mi viene in mente l’anatema di Primo Levi posto all’inizio del libro “Se questo è un uomo” che è così drammaticamente attuale ancora oggi:

Voi che vivete sicuri

nelle vostre tiepide case,

voi che trovate tornando a sera

il cibo caldo e i visi amici:

considerate SE QUESTO E’ UN UOMO,

che lavora nel fango,

che non conosce pace,

che lotta per mezzo pane,

che muore per un si o per un no.

Considerate SE QUESTA E’ UNA DONNA

Senza capelli e senza nome,

senza più forza di ricordare,

vuoti gli occhi e freddo il grembo

come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:

vi comando queste parole.

Scolpitele nel vostro cuore,

stando in casa, andando per via,

coricandovi, alzandovi;

ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,

la malattia vi impedisca

i vostri nati torcano il viso da voi.

Riflettete voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, che trovate cibo caldo e visi amici che quello è stato e quello continua ad essere. Uomini e donne che lavorano nel fango, che si umiliano, che vengono sfruttati, a cui viene calpestata la dignità e negato qualsiasi diritto anche quello a vivere una vita degna di essere chiamata con quel nome e di essere vissuta, con lo sguardo spento, senza più forza di ricordare, di sperare, di sognare, di lottare, che ancora muoiono per un si o per un no: inghiottiti dal mare, morti per il troppo lavoro, assassinati dall’indifferenza dei molti. Uomini e donne senza passato, senza presente e senza futuro. Semi che non daranno mai frutto, caduti sulla terra troppo arida di umanità e di amore verso il prossimo.

Per chi ancora viene deportato. Recluso in campi di concentramento. Mandato a lavorare in campi di sterminio. Annichilito. Disumanizzato. Per tutti i “diversi” messi ai margini dalle società falsamente perbene. Per chi disegna sentieri di libertà colorati mentre vive dietro sbarre grigie. Per chi immagina di correre in campi sconfinati senza più barriere e catene che li tiene  immobilizzati. Affinché a nessuno per differenze attinenti al colore della pelle, alla religione, alla razza sia negato il diritto ad esistere e per gli stessi motivi sia tolta la libertà, reclusi senza colpe, senza aver commesso alcun reato. Tratta di schiavi.

Per tutti loro e per i tanti dispersi della società, affinché possano ritrovare se stessi nella lotta per la propria emancipazione e per il riconoscimento dei propri diritti, per ritornare ad essere a tutti gli effetti esseri umani e correre spensierati nel grande campo che è il mondo intero.

Chantal Castiglione

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