Il coraggio dell’indignazione

E’ di poche settimane fa il gesto oltraggioso consumatosi a Milano, ai danni della lapide di Pino Pinelli, l’anarchico morto in seguito a un “malore attivo”, secondo quanto stabilì una sentenza dell’allora giudice Gerardo D’Ambrosio. Per ucciderlo di nuovo, per uccidere la sua memoria, per cancellarlo ancora dalla vita e dalla storia, la sua e quella di tutti noi. Come se non bastasse tutto il fango menzognero che gli è stato buttato addosso, distorcendo la storia, i pensieri e le azioni di Pino Pinelli, l’anarchico che fu staffetta partigiana, l’anarchico che sognava un mondo più giusto, un mondo fatto di pace e di  fratellanza.

Così decido di sentire una delle due figlie, Claudia, spinta dalla necessità della mia coscienza che sente il dovere e il bisogno di ricordare a tutti chi era Pino Pinelli, per contrapporre a un’azione indegna, una che controbilanci questa insopportabile mistificazione della Storia del mio Paese. E perché ho la profonda convinzione che mantenere vivi i ricordi equivale a mantenere in vita quelli che ci hanno lasciato, a non vanificare le loro azioni, i loro pensieri. Dare voce ai loro insegnamenti

E’ una conversazione che mi riempie il cuore, sebbene dolorosa, perché la voce di Claudia Pinelli vibra d’amore e ammirazione per entrambi i genitori. Mi piace molto quando parla di loro chiamandoli per nome: ho sempre pensato che questo sia un atto di amore profondo, come una restituzione, oltre che un’elevazione,  di dignità di uomini e donne.

Così passo anche più di un pomeriggio a parlare con Claudia Pinelli e, ogni volta, non mi accorgo delle ore che abbiamo “passato assieme”, impegnate in una conversazione in cui si intrecciano ricordi personali, fatti giudiziari, opinioni sull’attuale situazione politica nazionale e locale e un senso di indignazione per la capacità, tutta italiana, di stravolgere i fatti, di capovolgere gli eventi per darli in pasto a un’opinione pubblica molto spessa distratta e credulona.

Chiudo la conversazione con lei e dentro sento una specie di leggera euforia per avere raccolto  e dato voce a molti miei convincimenti etici prima ancora che politici. Perché, è un convincimento profondo benché sempre disatteso, che non può esserci politica in assenza di etica.

Spero, infine, di essere riuscita a non tradire il pensiero e l’essenza profonda di Pino Pinelli e di Licia Rognini, sua moglie, raccontati attraverso le parole di Claudia.

Come si cresce sapendo di avere vissuto una delle pagine più buie della repubblica?

 

Intanto si cresce. Si cresce anche grazie alle persone che ti sono al fianco, che ti sostengono. Il dolore dei bambini non va mai sottovalutato. Poi noi, io e mia sorella, penso di potere parlare anche per lei in questo, abbiamo avuto la fortuna di avere avuto accanto una mamma forte, che ci ha sostenute, proteggendoci dalla crudeltà della gente.

Siamo state spiate, la nostra casa fu per lungo tempo circondata da giornalisti, fotografi; le nostre vite guardate fin nel più piccolo dettaglio. Licia, mia madre, cercò di proteggere il nostro privato strenuamente: ci fece cambiare scuola per evitare di essere costantemente additate anche dai nostri compagni di scuola, aggiungendo dolore ad altro dolore.

Poi, da adulta, c’è stato un periodo della mia vita in cui ho dovuto prendere le distanze da Pino, per evitare di essere identificata solo come la figlia di Pino, per affermare la mia identità, il mio valore sia professionale che come persona a sé stante, e non perché fossi la figlia di Pino e di Licia, ma per me.

I tuoi genitori si sono ritrovati anche grazie allo studio dell’esperanto. Che tipo di rapporto era il loro ?

 

Beh, bisogna pensare che loro appartenevano a quella generazione che era appena uscita dalla seconda guerra mondiale; Pino poi era stato una staffetta partigiana. Lo studio dell’esperanto,  la lingua che racchiude in sé l’ideale pacifista, un ideale di vita non violento, fondato sulla fratellanza universale. Tutto questo li aveva conquistati, ridando loro entusiasmo per una società fondata sul diritto. Erano entrambi molto attenti, curiosi. Si sono ritrovati uniti principalmente attorno ai loro comuni ideali.

Questa tensione ideale è sempre stato il loro collante. Su tutti, forse il libro che entrambi hanno amato di più, è stata “L’antologia di Spoon River” che riprendevano spesso, rileggendo qualche brano. “L’antologia” era sempre sul comodino.

Licia e Pino volevano cambiare il mondo, renderlo un posto migliore. Pino era un uomo del fare, era un uomo del suo tempo che viveva con entusiasmo il suo impegno. Era consapevole che il cambiamento necessitava di essere agito, con impegno diretto e concreto. Era anche un uomo semplice, che viveva con naturalezza le istanze del suo tempo.

Qual è la cosa più bella, la più importante che ti ha insegnato tuo padre?

 

L’impegno. Se c’è un messaggio, un insegnamento che mi ha lasciato Pino è lo spendersi nell’impegno. Pino aveva una mente aperta e positiva. Aveva un’enorme capacità di dialogo,   parlava con tutti: dialogava con i socialisti, con i cattolici, anche con chi aveva idee molto diverse dalle sue. Solo con i fascisti non è mai riuscito a confrontarsi. La guerra, le atrocità del fascismo che lui aveva vissuto direttamente, sulla sua pelle, erano ferite troppo vive che non si rimargineranno mai.

Per il resto, come dicevo, si confrontava in modo aperto, era pronto all’ascolto attivo volto alla costruzione di un percorso su basi comuni. Fra questi ci furono i socialisti, particolarmente quelli del circolo Turati di Milano, e  una parte dei cattolici, non tutti i cattolici, ma quelli cosiddetti del dissenso, che instaurarono con mio padre un dialogo partendo da radici comuni come l’identica visione sulla non violenza e il pacifismo. Così fu proprio questa frangia del mondo cattolico a starci più vicino. Per esempio, furono proprio loro a recuperare il motorino di Pino dalla questura di Milano. Perché Pino andò in questura da solo, col suo motorino, seguendo la macchina della polizia. Non si è mai visto un indiziato di strage andare in questura con questa libertà di movimento per essere sottoposto a interrogatorio. Considerarono la sua morte una specie di “incidente sul lavoro” di cui non preoccuparsi troppo, in fondo era morto solo un ferroviere per di più anarchico Di certo non si aspettavano quell’onda di travolgenti reazioni da parte della società civile che si ribellò alle verità precostituite. La morte di Giuseppe Pinelli, “solo” un anarchico, fu quel granellino di sabbia che inceppò tutto l’ingranaggio trasformandosi in una spina nel fianco. E’ bene  ricordare che la strage di Piazza Fontana era stata preceduta da altri attentati “minori” [25 aprile ’69 Fiera di Milano: 6 feriti più una bomba inesplosa alla stazione centrale del capoluogo lombardo; nell’agosto 1969 scoppiano 8 bombe provocando 12 feriti più il rinvenimento di bombe inesplose a Milano Centrale e Venezia S. Lucia  n.d.r.] e che Calabresi aveva già arrestato diversi anarchici.  Pino mette su una rete organizzativa e di sostegno che si occupasse della difesa legale dei compagni arrestati.  Furono quei cattolici a rimanere con me e mia sorella, che eravamo due bambine, quella maledetta notte. Loro sostennero Licia, quando chiamò in questura chiedendo perché non l’avessero avvisata della morte di Pino, notizia che Licia apprese dai giornalisti il mattino seguente, e le fu risposto laconicamente che “non avevano avuto tempo”. Quei cattolici, infine, erano al funerale di Pino. E ci furono proprio perché avevano conosciuto mio padre, conoscevano le sue idee e le sue pratiche.

Cosa ricordi di più del periodo successivo alla morte di tuo padre?

 

La casa che di colpo si era svuotò. Casa nostra è sempre stato un porto di mare, pieno di gente, di giovani a cui Licia batteva a macchina la tesi di laurea, le riunioni politiche e sindacali che si svolgevano a casa nostra. Pino spesso cucinava per noi bambine, quando tornavamo da scuola. Ricordo i capelloni: i primi li  vidi circolare a casa mia. Ripeto: Pino era un uomo di grande apertura mentale.

In un colpo solo avevamo perso tutti e due i genitori: Pino morto e mia madre impegnata su più fronti: fra il lavoro, che proseguirà in università, e la ricerca di un avvocato disposto a occuparsi della vicenda [Licia Pinelli, alla fine del dicembre 1969 denuncerà il questore di Milano per diffamazione, mentre nel 1971 denuncerà Calabresi e tutti i presenti in questura per omicidio volontario, sequestro di persona, violenza privata e abuso di autorità. I procedimenti avviati vedranno tutti i protagonisti prosciolti con la condanna, per la vedova Pinelli, a risarcire il danno e a sostenere le spese processuali n.d.r.] Ricordiamoci che quelli erano anni difficili e tante cose non erano poi così scontate. Licia non si è fatta mai schiacciare e, soprattutto, non ha mai avuto, nemmeno per un solo momento, dubbi su Pino.

Che ricordi hai di quella notte o delle ore successive alla morte di tuo padre?

 

Ho già detto di avere attraversato un momento in cui ho dovuto distaccarmi da mio padre, era un atto necessario alla mia crescita, che mi consentisse di essere altro da “la figlia di Pinelli”.

Ho dei ricordi vivi di quella sera, ricordo perfettamente Pino che usciva di fretta e Licia che lo inseguiva per le scale per dargli il cappotto, era dicembre e faceva freddo e Pino era uscito senza.  Poi…poi tutti mi chiedono di ricordare, di ricordare Pino ma io, io  avevo solo otto anni quando morì e così, molto spesso, ho dovuto chiedere ad altri chi era mio padre L’ho conosciuto attraverso i racconti delle persone a cui chiedevo, delle persone che lo avevano conosciuto e frequentato. Tra le cose che non ricordo c’è la sua voce per esempio, e così me la sono fatta descrivere, ho scoperto che balbettava leggermente. Poi ci sono tanti episodi in cui i ricordi personali si sono sovrapposti ai ricordi dei racconti in modo inestricabile e allora non so cosa è un ricordo che mi appartiene per  averlo vissuto o è il ricordo di un racconto che ho poi fatto profondamente mio.

Qual è la tua eredità immateriale?

 

Ti rispondo con  una frase di Camilla Cederna: il coraggio dell’indignazione. Fu quello che  mi disse dopo la morte di mio padre, che bisognava avere il coraggio dell’indignazione, per non assuefarsi, per non continuare a subire.