IL PAESE DI IMPASTATO FESTEGGIA Il VECCHIO BOSS

Un’Epifania insolitamente rumorosa per gli abitanti di Cinisi, che quest’anno hanno assistito a festeggiamenti in pompa magna durati sino a tarda notte.

Ma nessuno era lì per dire addio alle vacanze natalizie, né per accogliere tardivamente l’anno nuovo: era il compleanno del boss del paese, bisognava far festa. procopio di maggio ha spento le sue cento candeline in una sontuosa sala ricevimenti, dopo essere stato omaggiato a lungo nei pressi della sua residenza, a pochi passi dal Municipio. Nonostante lo sdegno del primo cittadino, Cinisi ha preso parte ai festeggiamenti: non pochi i commenti di approvazione sui social, mentre la piazza gremita di gente assisteva all’esplosione di quei “botti” che qualche giorno prima erano stati severamente proibiti. L’intero paese, volente o nolente, ha ricordato la nascita di un capomafia, di un vecchio padrino. Eppure sessantotto anni fa, una Cinisi sopraffatta dalla malavita dava i natali a Peppino Impastato: era il cinque Gennaio. Per lui neanche un mazzo di fiori.

L’ennesima sconfitta per una Sicilia che stenta a scrollarsi di dosso decenni di stereotipi. È un’isola combattiva la nostra, ma dopo centinaia di sentenze ed arresti non è ancora arrivato il momento di deporre le armi. Impossibile non cedere a qualche istante di sconforto. Capita a chiunque, persino ai più agguerriti e Giovanni Paparcuri lo sa bene. Sopravvissuto all’esplosione che ha ucciso il giudice Chinnici, Paparcuri è stato al fianco di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, forte dei suoi ideali e fermo nei suoi propositi. Oggi è afflitto dalle ferite inferte alle sue battaglie, abbattuto da un popolo che sembra rifiutare il cambiamento. Eppure è ancora qui, a raccontarci cosa significhi lottare: ne sarà valsa la pena, comunque vada.

Non tutti conoscono la sua storia. Chi è dunque Giovanni Paparcuri?

“Un semplice cittadino che ha creduto nella giustizia. Ho fatto parte della scorta del consigliere Chinnici e non senza un motivo. Dopo la sua morte per mano di cosa nostra, non mi sono arreso: ho lavorato con Falcone e Borsellino, mi sono occupato dell’informatizzazione del Maxiprocesso. Ancor oggi non ho abbandonato la mia battaglia: parlo spesso ai giovani, nelle scuole. Racconto quanto accaduto e li rendo partecipi delle mie convinzioni. Spesso mi chiamano formatore, ma io non sopporto questo appellativo. Non mi si addice. Io non formo proprio nessuno: la sete di giustizia, il desiderio di legalità, i sani princìpi non possono essere insegnati, nascono con l’uomo stesso. Non si tratta di scegliere fra bene e male: solo il male si sceglie, il bene è semplicemente spontaneo.”

Convinzioni alquanto ottimistiche. Ne era convinto anche dopo la morte di Rocco Chinnici?

“Beh, sì. Se non fosse stato così, non avrei proseguito su questa strada. Non è stato semplice naturalmente. Occorre che i cittadini prendano le distanze da un certo modus operandi, da una mentalità retrograda e criminale che sta ostacolando la lotta alle mafie. Dobbiamo smetterla di rivolgerci al boss del rione per mettere a posto i problemi di ogni giorno, per ottenere protezione. Lo sappiamo tutti, ma continuiamo a farlo. A volte è decisamente avvilente.

Mi viene da pensare agli incontri con i ragazzi di cui parlavo prima: spesso a prendere parte ai dibattiti, a presenziare alle conferenze è soltanto gente del Nord. Di siciliani ce n’è ben pochi purtroppo. Su mille giovani, solitamente i meridionali sono solo dieci.”

Come mai secondo lei?

“Probabilmente sono stanchi. Qui ahimè la malavita, i crimini legati alla mafia sono sotto gli occhi di tutti. Li affrontiamo quotidianamente, sono la nostra realtà. E i nostri giovani non ne possono più, non vogliono neanche sentirne parlare. I ragazzi del Nord al contrario sembrano incuriositi, quasi attirati da una faccenda che non conoscono davvero, di cui hanno sentito parlare qualche volta al tg. In fondo io li capisco, i ventenni di Palermo. È frustrante tornare a casa dopo un incontro, accendere la tivù e sentire dei permessi-premio concessi a Giovanni Brusca.”

Quelli che hanno portato alla sua scarcerazione, proprio nell’anniversario della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo.

“Esattamente. Ora, sono perfettamente consapevole di quanto le dichiarazioni dei pentiti siano fondamentali per la giustizia. Si tratta di uno strumento imprescindibile e io lo so bene: ne ho catalogate 291. Proprio per questa ragione, ho avuto modo di ascoltare diverse registrazioni: ebbene, le loro non sono affatto parole di chi rimpiange sul serio il proprio operato. L’unica cosa che li spinge a testimoniare è la paura: sanno che verranno uccisi da un momento all’altro, per mano dei loro stessi boss, quindi vedono nell’autorità giudiziaria l’unica via di scampo. Per gente così io non concepisco nessuna immunità, nessun programma di protezione. Figuriamoci poi dei permessi-premio! Capisco l’esigenza di tutelare la famiglia del pentito, ma un criminale non merita alcun tipo di sconto. Si tratta di stragisti, di assassini! Basti ascoltare le testimonianze di Brusca: parla degli omicidi commessi con un candore inaudito.

Il verbale in cui si parla della morte del piccolo Giuseppe è ancora umido delle mie lacrime. La crudeltà con cui è stato ucciso non sembra ammissibile, non sembra umana. Non mi sarei mai potuto aspettare una così grande cattiveria, né una così paralizzante indifferenza nelle sue parole, al momento della testimonianza. Il tutto per una rappresaglia, per sete di vendetta.

Nicola Di Matteo, fratello maggiore di Giuseppe, ha rimproverato il padre, lo ha considerato il responsabile di quella atroce morte. Mi piace pensare che gli abbia gridato a gran voce ‹‹se non avessi fatto parte di cosa nostra, tutto questo non sarebbe successo››. Voglio credere che la rabbia di Nicola fosse dettata da un nuovo senso della giustizia.”

Eppure, nonostante episodi come questo, la sento ancora parlare di nuovo senso della giustizia. Questa sconfinata fiducia deve pur trarre nutrimento da qualcosa.

“Sì certo. Non è affatto tutto nero: spesso alla fine dei miei incontri, dopo ore trascorse a parlare di mafia e antimafia, decine di giovanissimi interlocutori si precipitano da me, chiedendo cosa possono fare per migliorare la situazione. Questo mi basta per risollevarmi, per crederci di nuovo.

Però dovete lasciarmi passare qualche istante di sconforto: è capitato persino a Falcone. Molti ricordano una delle sue frasi più celebri: la mafia, come tutti i fatti umani, ha avuto un inizio e avrà anche una fine. Beh, non tutti sanno che il noto aforisma non finisce qui. Il giudice ha proseguito, asserendo: spero solo che la sua fine non coincida con quella dell’umanità.

La cultura mafiosa è spaventosamente radicata ed estirparla non è un gioco da ragazzi, per niente.

Pensiamo a quanto successo a Cinisi: Procopio Di Maggio si è permesso di festeggiare i suoi cent’anni coinvolgendo l’intero paese, che non ha fatto nulla per prendere le distanze. Non voglio affatto dire che non debba celebrare questo suo personale traguardo, ma che lo faccia nel silenzio della sua casa. I familiari delle sue vittime sono state oltraggiate da insolenti fuochi d’artificio, da un paese che non ha fatto nulla per opporsi ad una cosa del genere. È stato il responsabile di innumerevoli morti, eppure sembra non farci caso. Salvatore Zangara, padre di un mio caro amico, ha perso la vita a causa sua. Non che avesse a che fare con la malavita, si badi bene. Era di passaggio, ed è bastato. Era uno di quelli che si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato: qualcuno voleva uccidere Di Maggio e il boss si è difeso dai colpi di pistola con il corpo di Salvatore. Uno scudo umano, insomma.

Si definisce uomo d’onore, ma non ha alcun rispetto, né per le vittime né per chi ancora le piange.

Ebbene, dinnanzi a episodi del genere mi capita di soccombere. Mi lascio sopraffare dal pessimismo e mi abbandono all’idea che nulla potrà mai cambiare. Fortunatamente sono solo attimi. Allo sconforto segue la rabbia, l’azione. Ma i pochi momenti di disperazione, sono i più neri, i più bui. Spero che mai prendano il sopravvento, perché non voglio smettere di crederci. Voglio continuare ad essere ottimista.”

 

Giorgia Medici