Il paradosso della ‘ndrangheta al Nord

di Agata Pasqualino | 15/04/2011 |

È stato presentato al Festival del giornalismo di Perugia “Alveare”, il libro del giovane giornalista Giuseppe Catozzella, un romanzo inchiesta su uno dei temi più scottanti del momento, l’impero delle cosche calabresi nel Nord Italia che non balza all’occhio perché ha le sue radici nelle periferie. Step1 ha intervistato l’autore

 

 Il giornalista trentaquattrenne Giuseppe Catozzella è nato e cresciuto nella periferia nord di Milano, in una zona dove il controllo della criminalità organizzata sul territorio si vede come nel quartiere Zen di Palermo o in quello di Librino a Catania. Da quest’angolo di osservazione privilegiato ha potuto esaminare un fenomeno che molti ignorano o fanno finta di non vedere: il dominio della ‘ndrangheta nel Nord Italia. Lo racconta nel suo libro “Alveare”, presentato al Festival del giornalismo di Perugia. Noi lo abbiamo intervistato.

La tua inchiesta nasce dall’esperienza personale. Come sei venuto in contatto con la ’ndrangheta?
È dipeso dalla casualità di nascere in quell’hinterland a nord di Milano che le operazioni di luglio hanno fatto conoscere come pieno di ‘ndrangheta, sede di quindici  “locali”, quindi di più di cinquecento affiliati. Chiaramente la magistratura l’ha scritto a luglio del 2010, ma chi c’è nato e vissuto lo sapeva già da molto prima. Da quando sono nato, sono sempre entrato in contatto, mio malgrado, con affiliati più giovani e ho sempre visto dinamiche e osservato metodologie tipiche della malavita e ora finalmente l’ho raccontato.

Perché hai scelto di intitolare il tuo libro “Alveare”?
Ho scelto la metafora dell’alveare perché mi sembrava quella più rappresentativa della modalità con cui la ’ndrangheta si è alla fine impossessata della Lombardia. Perché nei fatti così è: è entrata in tutti i settori più produttivi della Regione, come un alveare silenzioso si è impiantata in un angolo buio, in un interstizio della finestra, attaccata ad uno stipite e poi è cresciuta, si è sviluppata senza che nessuno avesse il coraggio di rimuoverla. In realtà, però, non è stata rimossa perché ha fatto comodo al tessuto corrotto della Lombardia, agli imprenditori.

Nel libro si parla del “dominio invisibile dell’impero della ’ndrangheta”. “Dominio invisibile” suona come un paradosso, ma è vero che la ’ndrangheta in Lombardia non si vede?
Si può dire invisibile perché, di solito, il punto di vista è quello del centro della città e da lì non si vede, nel senso che la presenza della ’ndrangheta è stata tracciata in molte società, addirittura SPA con sede nel centro di Milano, ma lì è impossibile vederla. Si vede benissimo invece nella periferia. Chi nasce e vive nell’hinterland popolare di Milano la conosce perfettamente e sa anche quali sono le famiglie che governano ogni singola zona.

Quali sono i metodi che usa la ’ndrangheta al nord sotto gli occhi di chi vive in questi quartieri?
Sono identici ai metodi usati al sud. Cinque giorni fa dove vivo io hanno sparato contro le vetrine di un’agenzia immobiliare, due settimane fa hanno incendiato una macchina. Sono gli stessi mezzi intimidatori. È il pizzo massivo. L’ultima operazione “Redux caposaldo” ha illustrato come per esempio siano sottoposte al pizzo non solo le discoteche di Milano più alla moda ma addirittura i baracchini che vendono bibite e panini. È il dominio totale del territorio.

Perché non se ne parla allora?
Questa è una bella domanda. Durante i maxiprocessi degli anni ‘90 sono stati comminati migliaia di anni di carcere a centinaia di affiliati ed è stata sterminata la prima generazione di ‘ndrangheta. Nonostante questo, però, tutto è finito nel dimenticatoio. Quindi anche io mi chiedo perché non se ne parla.

Sei stato negli Stati Uniti a presentare il tuo libro. Come sono state accolte le tue storie dal pubblico americano? C’è qualche differenza con la reazione di quello italiano?
In America ho avuto la fortuna di parlare in tre università e quindi di avere pubblici giovani. Sia in Italia che negli Usa, comunque, ho notato che  i giovani nutrono grandi speranze su questi argomenti. Ascoltano e assorbono in maniera incredibile. Faccio più fatica con gli adulti che mi guardano come a dire “ma perché ti metti a raccontare ‘ste cose, chi te lo fa fare?”. Invece i giovani hanno un impeto di giustizia e dicono “Ah, finalmente”.

Tu scrivi che la ’ndrangheta si nutre delle debolezze del nostro Paese. Quali sono queste debolezze? C’è un modo per guarirle? La “scrittura civile” è un modo per contribuire?
Studiare il fenomeno della penetrazione della criminalità organizzata al nord consente di avere uno sguardo privilegiato perché fa vedere come l’organizzazione criminale più potente nel mondo abbia preso piede nella regione più ricca d’Italia, una delle più ricche del pianeta. Fa vedere le metodologie e mostra lo strato corrotto della Lombardia. La ‘ndrangheta infatti fa comodo agli imprenditori, perché garantisce capitali liquidi praticamente illimitati – fondamentali soprattutto in un periodo di ristrettezze economiche e quando le banche non concedono più mutui – rende facile la vittoria negli appalti perché ha agganci con tutti i politici locali, e assicura sicurezza per i cantieri perché intimidisce i concorrenti. Dunque fornisce una serie di servizi che per l’imprenditoria sono perfetti, e per la Lombardia che è la regione dell’imprenditoria sembrano servizi ad hoc.

Cosa si può fare per spezzare questo dominio?
Innanzitutto aprire gli occhi, capire che il male non è confinato solo in una regione d’Italia, nel sud, e che il nord non ne è affatto scevro, che l’Italia è tutta contaminata. Poi documentarsi, capire dove, che cosa succede, quali sono i meccanismi. E infine adottare piccole strategie: denunciare giorno dopo giorno, pretendere da chi eleggiamo che ponga ai primi punti del suo programma elettorale la lotta alla ‘ndrangheta in quelle zone. Sono convinto che noi giovani, anche quelli più giovani di me, siamo pronti a riprenderci questo paese, a diventare imprenditori che non vogliono i servizi della ‘ndrangheta.
Fonte STEP1