Il vendicatore delle matrici Adler Traldi.

Avrò avuto cinque o sei anni, sarà stata l’estate del ’70, i calzoncini avana corti, i sandaletti blu con gli “occhi”, le bianche calze ricamate fino al ginocchio e una maglietta gialla a tre bottoni col colletto rigido a punta. Navigavo basso dentro un immenso salone, alla “Gazzetta del Sud”, la gabbia fumosa delle linotype, i grandi elefanti d’acciaio in fila indiana sferraglianti di continuo, gli animali meccanici della tipografia, l’ordinato frastuono produttivo del piombo fuso che si faceva parola da leggere l’indomani.

Vedi, lui è il proto. Un signorotto grande e grosso, almeno così mi parve allora ch’ero bambino, con un camice scuro e le mani inchiostrate di nero e tabacco, mi consegnò due strisce metalliche ancora calde mentre guardava mio padre, che di mestiere faceva il tipografo e m’aveva portato a vedere il suo regno.

La mia mano strinse forte quei lingotti minuti, da un lato una scritta astrusa, faceva “Adler Traldi”, il marchio di fabbrica delle matrici impresso a futura memoria, ancora non capivo, poi li rigirai mentre il rumore si faceva più forte e compresi la magìa.

Dall’altro lato c’era il mio nomecognome per intero, lo vedevo però all’incontrario, se li univo si leggeva completo. Lo guardai per un immenso minuto estasiato, poi trovai un filo di spago spezzato e quei due pezzi ora uniti di minima storia di carta stampata li feci miei come un timbro di fede.

Non dissi niente non ringraziai, mi vergognavo ad infrangere quel rito pagano industriale mentre la gente andava e veniva e portavano fogli di carta da un angolo all’altro “e fammi un titolo a quattro col sottoclichè” “e non piazzare più niente che oramai siamo stretti”.

Avevo avuto in regalo un tesoro, il mio nomecognome solitario e incrollabile. Fu in quell’attimo che decisi d’arrischiarmi a fare il cronista, che quello sarebbe stato il mio mondo, che mi sarei sporcato per sempre d’inchiostro, ammesso che importi a qualcuno.

Tornai a casa felice. Avevo il mio marchio indelebile, mi sentivo un privilegiato del piombo, potevo stampare da me, le matrici le feci vedere a mia madre e le tenni un bottone di un’ora su come dal rovescio tutto poteva diventare leggibile per incanto. Ritardai a cenare cercando un tampone d’inchiostro tra i cassetti di casa.

Da quel momento divenni implacabile. Colpivo ovunque, vendicatore delle matrici Adler Traldi. Ogni quaderno, ogni libro, i volumi dell’enciclopedia Conoscere: niente si poté più sottrarre a quello stampo improvvisato legato di spago con cui stabilivo la mia proprietà. Mi esercitavo ogni giorno. Sui diari dei compagni, sui risvolti segreti dei davanzali di marmo, colpevolmente sui banchi di scuola e sulle bianche pareti di latta smaltata del frigorifero, ora confesso, tanto oramai il reato è prescritto. Colpivo perfino su bollette e fatture, ogni foglio era un campo di prova.

Adesso tutto è cambiato. Quel rumoroso stanzone d’acciaio in funzione è svanito pian piano davanti ai nostri occhi, cronisti della generazione di mezzo, ragazzini al tempo del piombo e uomini nella fredda stagione dei computer in rete. Ma la rotativa è rimasta, qui, al giornale, lucidato pachiderma d’acciaio che ansima ancora ogni sera. E il sapore d’inchiostro sulla carta stampata, quando chiudiamo bottega, è ancora l’ultimo alito giornaliero del nostro meraviglioso mestiere di scrivere, e vivere.

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