Io che non ero figlio di un mafioso

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Gentile concessione del figlio Ferdinando
Una inedita foto della famiglia Domè
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Dieci dicembre 1969. Un massacro-quello di Viale Lazio- insanguina Palermo. Subito non si ebbe l’esatta percezione di cosa era successo.

La Stampa di Torino creò un parallelismo tra questa strage e la notte di San Valentino a Chicago, quando Al Capone distrusse una banda rivale presentandosi all’appuntamento in un garage, con la squadra, in uniforme da poliziotto. Sul terreno rimasero 200 bossoli. Era l’esordio della prima guerra di mafia, inaugurata dai corleonesi. Oggi sono passati 43 anni. In questo lunghissimo arco di tempo, una famiglia è stata distrutta. Quel giorno, infatti, morirono anche due innocenti. Salvatore Bevilacqua e Giovanni Domè (nella foto). Noi de’ ilcarrettinodelleidee, abbiamo intervistato il figlio di Giovanni Domè, Ferdinando, che ci ha raccontato la sua storia, ricca di contraddizioni e amarezze.

Della strage di Viale Lazio una storia è rimasta un po’ nell’ombra. Può raccontarci cosa è stato taciuto?
Già dal 1972, la figura di mio padre ne è uscita pulita. All’epoca però si è scritto di tutto: solo perché il commando aveva lasciato le armi lungo il vialetto. Noi per quarant’anni siamo stati bollati come figli di un mafioso. Quarant’anni fa poi c’era solo la verità dei giornali. Non esistevano le associazioni antimafia. Noi d’altro canto non avevamo i mezzi per contrastare questa campagna mediatica denigratoria. Mi ricordo che quando morì mio papà fui interrogato da Giuseppe Russo e Boris Giuliano. Gli raccontai quello che vidi. Ho visto una persona armata che si dileguava. Era una giornata come oggi: piovosa. Già dalle prime indagini si capì che mio padre non era un mafioso. Però abbiamo dovuto attendere fino al 2004, quando le dichiarazioni di un pentito hanno fatto luce su tutto. La storia di mio padre l’ho raccontata ai miei figli quando avevano vent’anni. Io sapevo dentro di me che mio padre non era un delinquente, ma nel corso degli anni, mi ero fatto influenzare anche io da quello che i giornali scrivevano. Oggi, finalmente riesco a parlarne apertamente. Ho superato tutte le chiacchiere che si dicevano sul mio conto. Pensa che quando io e mia moglie ci siamo fidanzati, anche mio suocero aveva delle perplessità nei miei confronti, per quello che la gente diceva di me. Noi siamo rimasti soli. Soli per tanti anni. Mi fa piacere che si parla di mio padre come una persona perbene. Le persone innocenti erano due. E siamo rimasti nell’ombra. Hanno messo, come si suo dire, nella stessa pentola, noi e i mafiosi. Ora invece che è saltata la verità, ho iniziato il mio percorso sulla legalità. Domani sarà sul Viale Lazio con un gruppo di studenti delle elementari. Sarà un momento opportuno per tenere viva la memoria e riscattare la figura di mio padre.

Com’è cambiata la sua vita e quella della sua famiglia dopo l’uccisione di suo padre?
La mia vita è totalmente cambiata. Io e i miei fratelli più grandi siamo andati a vivere in un collegio. Non c’era pulizia. L’ambiente era tipicamente mafioso. I grandi sopraffacevano i più piccoli. Mancava l’acqua d’estate e morivamo di sete. Mia madre è stata costretta a andare a lavorare. Ci veniva a trovare una volta alla settimana con il sacchetto della nutella o della marmellata. Si tornava a casa solo d’estate per le vacanze. Dopo le medie ho lavorato un po’ a Palermo, per trasferirmi poi a Torino. Qui vivo da trent’anni. La mia e la nostra non è stata una vita felice. Non so cosa sarebbe cambiato se mio padre fosse ancora vivo. In quel periodo stava cominciando la nostra rinascita. La nostra casa era sotto il garage. Eravamo sotto terra di due o tre metri. Mio padre lavorava come operaio edile, ma quella casa era legata al lavoro di portineria. Se ci fosse stato avremmo studiato. Lui, che aveva solo la quinta elementare si era reso conto che studiare era importante. La sera anche se era stanco morto ci interrogava e misurava la nostra preparazione. Auspicava che potessimo ottenere un riscatto sociale con la nostra preparazione.
Insomma, volevamo scrivere la storia di Giovanni Domé e abbiamo scoperto che quell’operaio ucciso a soli 31 anni ha dovuto attendere tantissimi anni per ricevere giustizia e riscatto. Lui, che non era mafioso ma che per oltre quarant’anni è rimasto intrappolato in false verità.
Claudia Benassai

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