L’amaro sfogo dei testimoni di giustizia

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“Vorrei essere un cane, almeno avrei delle associazioni che si prenderebbero cura di me”. Questa è l’amara constatazione che Ignazio Cutrò ci confida al telefono.

Dietro a quella che ormai è diventata la sua qualifica, testimone di giustizia, si celano molte false credenze che stravolgono il significato della sua condizione, insieme a quella delle altre 77 persone che in Italia si sono ribellate a mafia, camorra, ‘ndrangheta e sacra corona unita.

Fra quelle 78 persone sparse sul territorio nazionale e protette da una nuova identità c’è chi, come lui, ha denunciato i suoi estorsori. O chi, come Piera Aiello, si è vista ammazzare sotto gli occhi il marito poco dopo che le era stato ucciso anche il suocero. Oppure c’è Giuseppe Carini, che con la sua testimonianza ha permesso la cattura degli assassini di padre Pino Puglisi a Brancaccio.

Sono storie diverse l’una dall’altra, accomunate solo da quell’etichetta: “t.g.”, testimone di giustizia. Non hanno nulla a che vedere con i criminali, non hanno mai violato la legge né avuto interessi in loschi affari: sono persone comuni che hanno fatto la scelta di non girarsi dall’altra parte quando hanno visto o sono venute a conoscenza di reati legati alla criminalità organizzata.

Ora queste persone, che con la loro voce e i loro volti hanno dato un contributo determinante perché lo Stato portasse avanti il contrasto alle mafie, sono abbandonate a loro stesse.

“Domani consegneremo un esposto alla Procura della Repubblica di Palermo per denunciare l’assenza delle istituzioni” dice Cutrò, che è presidente dell’Associazione dei testimoni di giustizia, nata quest’anno. L’esposto è firmato da Piera Aiello e Giuseppe Carini, che “armati di coraggio ma disarmati della fiducia nelle istituzioni” lo hanno portato in procura.

La denuncia è infamante: lo Stato, che senza queste persone coraggiose non avrebbe elementi sufficienti per risolvere casi gravi come solo quelli legati alla criminalità organizzata possono essere, non fa tutto quello che dovrebbe fare per proteggerle.

Al telefono con noi si sfogano: “Siamo stanchi della legalità da passerella. Le istituzioni, e il neo eletto presidente del Senato Piero Grasso in testa, devono prendere coscienza della nostra situazione e decidersi a fare qualcosa per combattere davvero le mafie” denuncia Cutrò.

“Sono 22 anni che sto dentro a questo sistema strano – aggiunge Piera Aiello – Quando ci lamentiamo veniamo accusati di volere soldi, ma noi vogliamo solo tornare a fare una vita normale, a essere persone comuni”.

“Tanti politici si muovono con la scorta e a noi viene negata protezione quando andiamo a portare le nostre esperienze nelle scuole per dare un ulteriore contributo per la legalità” è l’amara constatazione di entrambi.

Don Luigi Ciotti, fondatore di “Libera, associazioni e numeri contro le mafie”, raggiunto telefonicamente assicura la sua vicinanza ai testimoni di giustizia. “Domani, in occasione della giornata nazionale della memoria delle vittime di mafia, si parlerà anche di chi da vivo dà il suo contributo per sconfiggere la criminalità organizzata” ha assicurato.

La speranza è di abbattere il muro di gomma che si è creato attorno a queste persone, che non hanno avuto alcuna colpa se non quella di essere vittime e di aver denunciato i soprusi subiti. “Il primo segnale lo devono dare le istituzioni, noi abbiamo già fatto quel che dovevamo fare” è la conclusione di Ignazio Cutrò.

 

In allegato l’intervista a Piera Aiello ed ignazio Cutrò: http://www.spreaker.com/user/ilcarrettinodelleidee/intervista_cutro_aiello

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