L’AMORE DIVERSO

Accese la sigaretta con rabbia, mentre il sale delle lacrime bagnava il filtro e la cartina.

In casa si era placato l’ultimo tornado. Adesso le sedie, il vaso di porcellana, i Capodimonte sopra lo sparecchiatavola, stavano tramortiti e sparsi per tutto il perimetro della stanza. Piccoli brandelli di vetro tagliente, lucidi e inutilmente colorati, a ricordare attimi di una gioia mai consumata.

Erano il risultato dell’ultimo litigio con il fratello Salvo. Ormai quella casa era diventata la sua prigione.

Uscì, si appoggiò con la schiena al muro, piegò una gamba, per sorreggersi, indifferente agli sguardi dei passanti, alla curiosità morbosa dei compaesani. Cristina se ne fregava di tutti. Aveva iniziato a fregarsene all’età di diciassette anni, alla morte del padre. Suo padre era stato il primo a gestire una pompa di benzina a metà del corso principale, tanti anni prima, quando sporadiche automobili sfrecciavano accanto ai lenti carretti delle masserizie. Sua madre era una donna fragile e all’antica, Salvo ancora un bambino.

Indossò la tuta del padre e uno sguardo di sfida, alle sette di mattina di un dicembre piovigginoso aprì la stazione di servizio. La tuta le stava larga, informe, ma non riusciva a coprire le sporgenze del seno. Di fronte c’era il bar, luogo di ritrovo e santuario maschile che mai aveva visto le sue colonne di fumo violate dall’ingresso di una gonna. Cristina ci entrò col suo passo sicuro, il chiacchiericcio di commenti sul calcio e la descrizione dell’ultimo incontro con la puttana del paese raccontata fino nei minimi dettagli, cessò di colpo.

Chiese un caffé, mentre imprigionava il tabacco dentro una cartina. Pescò nella tasca della tuta un accendino, piegò la testa di lato per non bruciarsi i capelli. Tirò una boccata lunga e soddisfacente, mentre il barista le serviva il caffé che aveva ordinato, con gli occhi bassi e incapaci di reggere lo sguardo della donna. Quando uscì, sentì il silenzio rotto dai primi commenti increduli, farsi parola tagliente, brusio crescente, pettegolezzo aperto. Vadano al diavolo.

Cristina faceva una vita solitaria, esclusa dai gruppi delle coetanee. I capelli corti, il portamento maschile, erano note stonate per le ragazzine a caccia di marito, che non includevano mai Cristina nei loro discorsi e nei loro sogni in abito bianco.

Si sentiva diversa. Lo era.

Solo Nina non la temeva e conversava con lei tutte le volte che si incontravano nelle vie del paese. Era delicata e dolce, le chiedeva come stava, l’incoraggiava a superare il dolore per la perdita del padre.

Un giorno si incrociarono per caso, lungo un sentiero della montagna che sovrasta il paese. Cristina passeggiava pensando ai fatti suoi, la solita sigaretta accesa, stretta fra le labbra. Nina stava raccogliendo verdura selvatica. Fu in quel momento che la pallottola del fucile di un cacciatore passò a pochi centimetri da Nina. La ragazza lanciò un urlo, cadde in terra. Cristina le fu sopra con un balzo, in un istinto di protezione,  facendole scudo col proprio corpo.

“Non piangere Nina, non sei ferita”. Si sollevò col busto per controllare che le sue parole fossero reali. Le passò una mano sotto la testa, per sorreggerla. Con l’altra, facendo leva sul gomito, iniziò a esplorarla, la toccò per assicurarsi che non avesse nulla. Non c’era malizia nei gesti, solo preoccupazione. La sua mano scivolò lungo il collo, superò le anse dei seni, arrivò fino al ventre e poi lungo le gambe. Fece questo percorso velocemente mentre, sulla strada di quel paradiso di carne, iniziò una nuova esplorazione in direzione inversa. Ma con lentezza questa volta. Le mani si muovevano in assenza di volontà, come seguissero un percorso obbligato. Le sfiorò le gambe con la dolcezza sulla punta delle dita, saltò volutamente la rosa del pube, le accarezzò il ventre finché giunse ad accarezzarle il seno. Avvertì sotto le sue mani i piccoli capezzoli di Nina. Si guardarono, smarrite. Cristina sentì un calore indicibile incendiarle il ventre, mentre i suoi umori si facevano sempre più liquidi. Le sue mani si bloccarono ai confini delle cosce, spaventata dai suoi stessi desideri. Le sollevò ancora un poco la nuca. I loro visi erano divisi da un filo sottile di luce. Nina aprì leggermente le labbra. Non chiuse gli occhi: voleva vedere allo specchio il suo piacere. Cristina rimase ferma ancora un poco, a studiare quei contorni perfetti che profumavano di ciliegia. Le accarezzò tremante la bocca. Esitarono ancora un momento, poi avvicinarono le labbra baciandosi teneramente,  interrompendosi frequentemente per guardarsi meglio: un misto di paura e voglia di spezzare ogni confine era quello che vedevano l’una nell’altra.

Nina ansimò leggermente. Fu per Cristina una sorta di lasciapassare: non esitò più e iniziò l’esplorazione di quella fortezza con le dita. Ma quella fortezza, anziché respingerla, la accoglieva. Fecero l’amore con dolcezza. Infine, dopo avere conosciuto tutti i sapori di un piacere profondo, rimasero abbracciate, accarezzandosi a lungo.

Dopo quella volta non riuscirono più a smettere: si davano appuntamento ogni giorno in un punto che era diventato il loro talamo nuziale. Si amavano ripetutamente, fino allo sfinimento.

“Ti amo”, le disse un giorno Nina. Cristina accese una sigaretta, fissò lo sguardo su un punto lontano e, socchiudendo leggermente gli occhi, le rispose: “Anch’io sono innamorata di te”.

Per giorni, per mesi che divennero anni, furono felici. Non si sentivano in colpa. Non c’è colpa nell’amore. Solo desiderio di libertà. Cristina alternava il lavoro alla stazione di servizio con gli incontri d’amore.

Intanto sua madre si era ammalata e Salvo, diventato un ragazzone, aveva trovato lavoro nella vicina cava.

Ogni tanto la madre implorava Cristina di vestirsi da donna invece che con quegli eterni pantalonacci. Che usasse un reggiseno, e indossasse delle scarpe col tacco. E, soprattutto, che andasse a messa qualche volta, a cercarsi un marito. Cristina rispondeva brusca che non voleva una vita matrimoniale, preferiva rimanere zitella.

L’ isolamento cresceva, ma non le importava, perchè lei aveva Nina.

Il mondo cambiò d’improvviso una sera che Salvo rientrò prima dal lavoro. Non disse una parola, saltò addosso alla sorella e la riempì di botte. Ad ogni schiaffo Cristina girava violentemente la testa, perdeva l’equilibrio e sbatteva contro qualche spigolo. Nessuna parola fu pronunciata, solo violenza, cieca e muta. Cristina restò in una pozza di sangue sul pavimento, mentre il sale delle lacrime le bruciava le ferite. La madre impietrita da quel giorno non parlò più. Salvo, seduto in un angolo della sala, sfinito, ebbe solo il coraggio di apostrofarla: “T’ha fai chi fimmini, buttana?”.

Non rispose, continuò a piangere in silenzio. Dopo molto tempo si sollevò e, barcollando, andò in bagno a medicarsi. Il mattino successivo entrò al bar di buonora, tutti gli sguardi curiosi fissi sulle bende. Ordinò il suo caffé e poi andò ad aprire la stazione di servizio, come se nulla fosse successo.

Passarono alcune settimane prima di potere rivedere Nina che mancò tutti gli appuntamenti. Intuì che anche per lei c’erano stati problemi in famiglia e questo aumentò la  preoccupazione per la sua sorte. Il cuore le doleva, era innamorata di Nina, le mancava moltissimo.

Finalmente, dopo trenta lunghissimi giorni, riuscirono a incontrarsi. Nina venne all’appuntamento. Si abbracciarono strette strette, si accarezzarono a lungo, con dolcezza, guardandosi negli occhi come un miracolo ritrovato. Poi fecero l’amore sul prato, amandosi fra le lacrime.

Quella sera, rientrando dal lavoro, Cristina trovò un ospite. Salvo aveva portato in casa il prete che, non appena la vide, iniziò a riempirla di incenso e segni della croce, benedicendo ogni angolo, ogni indumento della stanza di Cristina. Lei ebbe un moto di rabbia e strappò dalle mani del prete le lenzuola, le maglie, le fotografie per sottrarle a quella che le sembrò una violazione della propria intimità. Dovette lottare con il fratello, che cercava di impedirle di difendersi. Volarono parole grosse e la violenza di Salvo si abbatté ancora su Cristina: la colpì con tutta la sua forza, le rovesciò addosso il tavolo e ogni soprammobile che gli capitava fra le mani. Il prete scappò urlando “questa casa è il regno del demonio”.

Salvo non si fermò, continuò a colpirla, urlando insulti irripetibili. Più lei resisteva, più aumentava la sua violenza finché la sollevò e, afferrandola per la tuta, la scaraventò fuori, sulla strada. Dopo un volo di qualche metro, cadde su una spalla. E svenne.

Tutt’intorno si raccolsero uomini che l’osservavano muti, senza muovere un dito. Ma un ragazzo si fece largo nel capannello. Le asciugò il viso con un fazzoletto e le ripulì alla meno peggio le ferite. Quando rinvenne, la prese in braccio con delicatezza e la portò a casa sua. Ogni giorno, le medicava le ferite con maggior attenzione. Quando Cristina fu guarita, il ragazzo le disse: “Domani mattina dal porto della città parte una nave, diretta in America. Lì vive un mio amico, ti do nome e indirizzo. Raggiungilo. Lui vive il tuo stesso dramma e per mettere a tacere le malelingue ha bisogno di una moglie. Gli scriverò mentre sarai in viaggio e verrà a prenderti al tuo arrivo. Vattene Cristina, vai nel Nuovo Mondo, se vuoi salvarti la vita. Cancella tutto. Questo paese non ti merita”.

Cristina si imbarcò su quel vascello con le vele spiegate verso la libertà. Un senso di pace iniziò a farsi largo nel suo cuore, fino a diventare il principio di un vago senso di felicità.

Non tornò, fino al giorno in cui ricevette una telefonata.

Non disse una parola e, quando la voce all’altro capo del telefono ebbe finito, riattaccò il ricevitore. Si sedette sulla poltrona di stoffa verde, davanti alla finestra che dava sul giardino, e aspettò immobile il rientro di Jimmy, che aveva sposato tanti anni prima. Suo marito era divenuto il suo migliore amico dall’istante in cui aveva messo piede in terra americana. Non c’erano segreti fra di loro e si erano sostenuti per tutta la vita, con affetto e rispetto.

Il mattino seguente Cristina andò dal parrucchiere, si fece acconciare i capelli secondo la moda del momento: cotonati e di un bellissimo color rame che si accordava perfettamente al nocciola dei suoi occhi. Poi entrò in una profumeria e acquistò ombretti, ciprie e un kajal marrone. Si diresse in una nota boutique a pochi passi da lì e comprò un tailleur verde smeraldo, delle scarpe in tinta, col tacco, e una borsetta di pelle.

Il mattino successivo era in volo verso l’Italia. Raggiunse il suo paese a bordo di una vecchia corriera. Quando scese provò l’istinto di fuggire, come tanti anni prima. Cercò di camminare con disinvoltura sui tacchi. Sentì tutti i loro sguardi appiccicati addosso, i paesani si stavano interrogando su chi fosse quella donna dall’aria vagamente familiare. Fendette indifferente il muro della gente, e giunse davanti alla porta di quella che un tempo era la sua casa. Le aprì una donna ancora giovane nelle vesti nere, doveva trattarsi di Lina, la moglie di Salvo.

Entrò a vegliare il cadavere della madre, la borsetta stretta in mano, poggiata sulle gambe. Si accese una sigaretta e iniziò a fumare di gusto.