L’ETICA DELLA CURA- INTERVISTA A GIUSI VENUTI

Il Sapere del Corpo è un progetto di ricerca e formazione che ha come obiettivo quello di mantenere fortemente intrecciati ambiti che spesso si affrontano separatamente: la ricerca filosofica su temi di portata etica e il teatro. Il teatro inteso non solo nella sua versione debole di genere letterario ma anche, e soprattutto, nella sua finalià forte di luogo in cui si va per lasciarsi toccare dalla potenza dinamica delle emozioni e dell’espressività di vissuti altrui.”

 

Il progetto verte sulla rielaborazione del concetto di etica della cura, perché si occupi delle ‘menti nei  corpi’. In scienza e coscienza, studiosi e artisti andranno all’interno delle strutture di contenzione (scuola, università, carcere, ospedale) e servendosi del potere formativo del teatro e sotto forma di consulenza filosofica offriranno uno strumento teorico e pratico insieme al fine di innescare attraverso un percorso di ricerca personale una maggiore consapevolezza, competenza ed efficienza dal punto di vista soggettivo e in relazione con l’altro.

 È Giusi Venuti, filosofa e Dottore di ricerca in Scienze Cognitive all’Università degli studi di Messina, ad  illustrare e chiarire gli intenti del progetto. 

Come e perché mischiare il ‘sapere’ e il ‘saper fare’?

Siamo mente e corpo. È ora che i filosofi lascino le cattedre, lavorino in senso pratico coi temi dell’etica: la modalità laboratoriale può essere un ottimo strumento.

Io per prima ho capito di avere un corpo durante il laboratorio di ricerca teatrale “Il gioco più serio”,  non lo sapevo, pensavo di star bene, perchè quando il corpo non sta male non lo senti. La filosofia è solo testa e allora è necessario lavorare sullo scopo. Io non ti posso costringere a fare, ti posso invitare a guardare. Se vuoi arrivare lì devi attivare il corpo. È un concetto ben lontano dall’imposizione.

La filosofia moderna ha reso gli uomini ciechi riguardo allo scopo. Kant sosteneva che tutto l’essere si divide in fenomeni e noumeni: cose che appaiono e cose che non vediamo, a cui dobbiamo credere. Su questa separazione ha fondato l’etica, facendo del dovere una cosa che non si vede. Agire in questo modo diventa un atto superegoico, profondamente inconsapevole, estremamente impositivo.”

 

Da un punto di vista formativo ed educativo,  le strutture di contenzione, quanto puntano sulla relazione ed il confronto con l’altro?

“Purtroppo non sono pensate per  la relazione ed  il confronto, dovrebbe essere così, anche in carcere considerando prevista la rieducazione e la riabilitazione, eppure lo spazio non lo favorisce perché c’è un’altra esigenza interna all’etica della cura: quella di contenere, appunto.

Inoltre abbiamo creato una logica di relazioni fallimentari secondo le quali l’altro non è la possibilità..l’altro è il nemico. Se sto male, non mi muovo da casa per andare a morire in ospedale.

Ancora chi è diverso, o meno capace viene lasciato a subire. La scuola: istruzione uguale per tutti..bugia! Perché non siamo tutti uguali. I più forti vanno avanti, chi capisce meno resta indietro, e viene bocciato.

Strumentalizzare la filosofia, il teatro, l’architettura, il diritto, significa tentare attraverso questo progetto, di puntare i riflettori su un concetto culturale che non funziona più.”

 

Perché il richiamo al POSTO OCCUPATO? È un caso che sia una donna a parlare di etica della cura?

“Le donne si bruciano. Perché le donne sono il simbolo del male. Sono sporche, sono la terra, perché è da li che passa il seme, che viene concepito. Anche se non siamo più nel Medioevo le donne vengono bruciate ancora oggi e lo sappiamo bene. Il POSTO OCCUPATO può essere un atteggiamento di figura o può essere l’indicazione di un percorso culturale. Io parlo in quanto donna, di violenze ne ho subite, non parlo di violenze fisiche, non ci sono solo quelle. Di tanto in tanto qualcuno puntualmente viene a dirmi: non esisti. Il tuo lavoro è inutile. Impossibilità. Utopia. Di soldi non si parla poi, la filosofia è roba da radical chic!

Il progetto non sono io, è fatto di artisti, architetti, antropologi, penalisti, studiosi, ma sulla brochure c’è il mio volto, il volto dell’altro, che ti dice: non mi uccidere.”

 

Il progetto è stato già approvato a Capo D’orlando con due delibere, per la promozione sono previsti pacchetti minimi di 30 ore, quali sensazioni sono legate a queste sue prime esperienze?

“Ogni volta che riesco ad entrare in questi luoghi, le persone a cui è rivolto il progetto mi fanno tutte la stessa domanda: perche è venuta?

Sintomo della misura del cinismo che noi stessi abbiamo prodotto. Meravigliarsi di una persona che non è un assistente sociale, che dunque non ha un motivo, apparente, per interessarsi alla loro condizione. Spiazzati anche i medici, credono che sia stata male o che abbia parenti malati, quando dico che semplicemente mi interessa sapere cosa succede li dentro.

Proprio con loro, medici e operatori sanitari ho lavorato sul concetto di responsabilità attraverso l’utilizzo di pesi legati alle gambe e al corpo, al fine di esperire la responsabilità. Fatto questo lavoro in modo reinterato automaticamente per come è composta la nostra struttura celebrale, dopo 30 ore, alla parola responsabilità loro cambiano da un punto di vista del corpo assumono addirittura una diversa postura. Non pensano più a cuor leggero, sentono il peso perché lo hanno sperimentato col corpo.”

L’empatia, la capacità di comprendere l’altro, la focalizzazione del sentimento, saperlo intuire  ed avvertirlo in prima persona, quanto è importante?

“È il concetto chiave. Permette di rendersi conto, non è capire, non è sentre, è capire e sentire insieme. Sentire dentro il richiamo che viene da fuori. Lasciarsi interrogare dalla realtà è un atto cognitivo, si tratta di affinare le sensibilità. Se la nostra scorza è troppo dura, se non ci lasciamo pungere, niente ci chiama. Questo succede se la società ci nega la possibilità di comprendere, se l’altro ti vuole fare del male, cammini col giubbotto antiproiettile..e non ti pungerà mai niente! Bisogna invece lavorare sulle strutture psicofisiche e bisogna farlo da sani. Perché quando sei malato è troppo tardi. Il teatro è apprezzato solo nella sua spettacolarità, eppure  è un mezzo potentissimo, serve a vedere ciò che in genere, sistematicamente, rimuovi. Tutte le tragedie greche si muovono secondo questa linea: scoprire, simbolo del cammino verso la consapevolezza. Dietro, in contrasto, un ignoranza di fondo.

Il progetto vuole lavorare sulle sensibilità con più approcci, nella sua ampiezza necessità che le istituzioni si attivino.

Il fine è ritornare al patrimonio dell’umano, che non sta dentro un reality show, ma in Cicerone, Aristotele, Platone, coloro che hanno lavorato e affinato il concetto di umanità.”

 

All’interno dei luoghi di contenzione l’ostilità, l’apprensione, l’imposizione possono creare una sorta di compressione, volta paradossalmente alla formazione di un vuoto. Qual è il compito ed il ruolo della filosofia in questo caso, anche in relazione ai saperi con cui viene a contatto?

“Colmarlo sarebbe il massimo, ma bisogna prima renderlo visibile, è questo il compito della filosofia. Ognuno in maniera soggettiva e consapevole troverà le proprie risposte e colmerà quel vuoto che nessuno vuol vedere perché fa paura.

Da sempre lavoro nel campo della Bioetica, scienza per sua natura interdisciplinare, che racchiude e unisce i saperi. E mi capita di commettere un errore.  Capita a molti, l’errore sta nell’appiattirsi davanti al medico perché dimostra, davanti al giurista che ha i documenti e così lo statuto del filosofo si perde, perche è debole. Allora la mia ambizione, una delle più grandi, vive nell’opportunità che filosofi continuino a fare il loro, all’interno di una struttura di saperi forti.”

 

Possiamo parlare dunque di ‘Filosofia applicata’?

“A 15 anni ho capito, e non ho più cambiato idea, che la filosofia poteva essere uno strumento utile, perché inutile. Io non ti servo, non mi piego a quello che mi chiedi. Dobbiamo  riuscire a tenerla libera da questa forza a cui tutte le discipline sono soggette, come è libera l’arte: espressione, come la caffettiera sulla locandina, di un contenuto interno, anche se sporco e marcio..perchè se resta dento diventa una bomba esplosiva e crea il vuoto.

Sono consapevole che si fa gran fatica a stare dietro le costrizioni, stancano e noi siamo tutti stanchi al giorno d’oggi, colpa dei ritmi frenetici, delle scadenze, dei tempi. Ma non è possibile eliminare le regole. Piuttosto con l’esercizio la norma può divenire una disposizione abituale.

C’è un problema specifico che riguarda i luoghi e le strutture, l’etica del quotidiano, lontana dal sensazionale. Questo ho scoperto e se ti reputo viva ti chiedo: ti può interesare?

Voglio fare un lavoro lento, costante, voglio mettere in pratica gli studi di una vita, altrimenti continuo a scrivere i miei saggi, ti dico cosa fare e ti tratto come se fossi stupida o morta. Se la cultura diventa merce, lavora sui morti. ”

Giovanna Romano