La bocca del lupo

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“[…] a teu fotu da fantinn-a

pe puéi baxâ ancùn Zena

‘nscià teu bucca in naftalin-a.”

Da me riva, Fabrizio De Andrè

Il mare, comincia così La bocca del lupo (2009) di Pietro Marcello.

Il mare in questione è quello di Quarto dei Mille, entrato nella Storia grazie a Garibaldi che da lì salpò con le sue camicie rosse alla volta del meridione italiano con la speranza di fare un Paese.

Ma è chiaro che quel mare non è solo questo, perché il mare, nonostante l’uomo gli abbia dato nomi e collocazioni diverse, è unico ed è più vecchio dell’uomo stesso, e nonostante il suo mistero sia insondabile, a volte, tra le sue onde è possibile scorgere qualcosa delle profondità che ha in sé, qualcosa di così ancestrale e mitico da non avere un tempo.

Così esso diviene sin da subito allegoria di qualcos’altro, e il viaggio si fa metafora del naufragio esistenziale, della ricerca di un altrove forse migliore, forse più sicuro e stabile.

Come già ne Il passaggio della linea, Marcello racconta una storia antica che parla di viaggiatori, di migranti, di persone che, per scelta o per necessità – o forse per vocazione – sono in cerca della loro meta, solo che lì il viaggio era metafora di libertà, qui invece assume le caratteristiche del nostos, del ritorno in patria, a casa, dalla donna amata.

E come ogni storia degna di questo nome, questa è anche – ma forse bisognerebbe dire soprattutto – una storia d’amore, d’amour-amitié, come lo chiamano i francesi: un amore che non si logora col tempo ma che sa superare ogni avversità e sa attendere.

È la storia di Ulisse e Penelope.

C’è una donna seduta, la sua silhouette si staglia in controluce; al di là della finestra c’è il mare. Una voce off comincia a parlare, la prima parola che pronuncia è “amore”.

Sembra una lettera e invece è una registrazione.

La voce appartiene ad Enzo, anzi apparteneva a Enzo, perché si tratta di un nastro registrato in carcere, poco prima di uscire.

L’idea di incidere la propria voce per farla sentire all’altro è venuta a Mary: decine di audiocassette in cui dichiararsi il proprio amore, la propria gelosia, i sogni comuni, le paure, per accorciare la distanza, per essere comunque vicini.

Marcello fa un uso magistrale di queste registrazioni che, di fatto, ritornano in vari punti del film per accompagnare lo spettatore nella scoperta dei due protagonisti e della loro storia. Così come risulta pregevole l’utilizzo dei filmini dei cineamatori genovesi, volti a raccontare i mutamenti della città nel corso del ventesimo secolo. Documenti audio-visivi che ci dicono che ciò che stiamo guardando non è finzione, non è un film a soggetto.

Questo non vuole dire che l’intero film si regga su interviste o immagini di repertorio, anzi, gran parte delle scene è recitata dallo stesso Enzo che si presta a ripercorrere una strada ed un passato ormai lontani.

Così, nelle prime inquadrature, lo vediamo, col borsone in spalla, tornare a Genova, tra i cargo e le gru del porto mentre la voce off, la sua, ricorda a Mary il loro sogno di avere una casetta in campagna, con l’orto, le paperelle e i cani.

Sembra un film di Marcel Carnè ma a colori, con l’antieroe che, uscito dal carcere, sbarca clandestinamente in qualche porto francese per tornare dalla sua bella.

Poco più avanti il film cambia: con le insegne al neon che si accendono e si spengono sembra un film di gangster degli anni ‘30 e Enzo ci ricorda Paul Muni, ma con i baffi. Subito dopo, con i due sbirri, Cocis e Indiano, che gli sparano e lo arrestano e lui che risponde al fuoco con la sua 44 magnum – “come quella dell’ispettore Callaghan” – siamo in un film di Don Siegel.

Ma questo non è un film ed Enzo non è né Gabin né Muni e nemmeno Eastwood, Enzo non è un attore, e qui non siamo in Francia o a Chicago, qui siamo a Genova e questa storia è vera, sono ricordi che si fanno vivi, penetrando in un presente diverso, più felice forse, sicuramente colmo di speranza.

Sono i ricordi di Enzo che, come in sogno, ci racconta la storia di come è finito in carcere e di come è tornato a casa.

È chiaro sin da subito che La bocca del lupo si fa carico di testimoniare una vicenda privata che in un altro contesto sarebbe stata un bel ricordo di famiglia, ma l’intento di Marcello è anche quello di far conoscere una realtà che appartiene ad una città intera, ad una Genova che non sembra esser poi tanto cambiata nel corso dei secoli, con i suoi reietti, i suoi caruggi, il suo porto, la sua lanterna.

È la stessa Genova di Remigio Zena, l’autore di un romanzo di ascendenza naturalista da cui il regista ha preso in prestito il titolo. Come nel romanzo anche qui si tratta di una storia di vinti, di gente che la durezza del vivere ha schiacciato, ma qui i vinti sembrano potersi riscattare, rialzare la testa e affrontare la vita in virtù della tenerezza e della costanza del proprio amore.

Tuttavia, nonostante il suo carattere documentaristico, La bocca del lupo resta pur sempre un film, nel senso che per quanto si tenti di riprodurre la realtà, vecchia o nuova che sia, la vita va oltre con la sua imponderabilità e la sua accidentalità. Così, questa storia di riscatto, in quella realtà che è alla base del film e che allo stesso tempo per forza di cose lo travalica, non può che finire male, con Mary che non c’è più e con Enzo rimasto solo, in balia del suo destino.

Lo iato insormontabile tra la realtà e il film rimane vivo dunque, tanto più che quello di Marcello è sì un documentario, nel senso che si avvale di testimonianze vocali e visive, eppur tuttavia sembra inevitabile che, ad una prima visione, si abbia il senso di qualcosa di artefatto, di costruito, qualcosa che non ci convince del tutto della veridicità della storia narrata. Questo non perché, come abbiamo già evidenziato, alcune situazioni sono ricostruite per la scena, ma perché la storia raccontata è talmente immensa, talmente profonda da apparire finta. Il cinema e la televisione forse ci hanno abituato così tanto a sentimenti ed emozioni forti che ritrovandole nella realtà esse non possono che apparirci simulate.

Questo di Marcello quindi non è un documentario, e non è un film a soggetto, non è televisione e non è pubblicità progresso (nonostante sia stato commissionato dai gesuiti della fondazione San Marcellino per testimoniare il proprio impegno nel sociale).

La bocca del lupo è una poesia, anzi, per essere più corretti, un poema.

Marcello si è inventato un genere, qualcosa che ha a che fare con il nostro cinema – si pensi al neorealismo e, ancor di più, a Pasolini e ai suoi richiami all’iconografia e alla musica sacre che anche qui danno conto di un certo sentire cristiano – ma che allo stesso tempo se ne distanzia, per dare spazio ad una realtà e ad un amore così intensi da non poterli riassumere se non attraverso la poesia.

Marcello è bravissimo nell’evitare patetismi a buon mercato: nessuna retorica, nessuna traccia di quel populismo o buonismo di chi guarda una realtà altra con gli occhi di chi sta meglio, lo sguardo qui si fa visione, “[…] scoperta di qualcosa che non siamo più abituati a vedere”.

Del resto quella di Marcello è una regia invisibile, che non si preoccupa di dirigere gli attori o di scegliere i movimenti di macchina – quasi del tutto assenti, se si esclude qualche panoramica – ma che guarda ai suoi protagonisti con un occhio umano, veramente empatico.

È proprio il distacco da un certo modo di fare e intendere il cinema che restituisce allo spettatore la veridicità ed emotività della storia, permettendo a Marcello di affidare quasi totalmente al montaggio il compito di raccontare.

La macchina da presa non è invasiva e la presenza del regista è affidata alla voce di Franco Leo, che si palesa solo tre volte nel corso del film – in un prologo, un intermezzo e un epilogo -, tre commenti non descrittivi né narrativi, ma evocativi, volti a sottolineare l’aspetto poetico della vicenda narrata.

Così anche il montaggio assume una propria valenza simbolica, se consideriamo la suddivisione in due parti che assume la struttura del film grazie ai tre commenti fuori campo: una prima parte frammentaria, dedicata quasi esclusivamente ad Enzo, e una seconda parte emblematicamente unitaria, dove per la prima volta ci viene palesato il volto di Mary che accanto al suo uomo continua a raccontarci della loro vita.

Così come, nella prima parte, la discontinuità, anche temporale e non soltanto visiva, e la presenza solitaria di Enzo sono metafora della distanza che ha diviso i due innamorati per anni, costretti a comunicare con le audiocassette o a vedersi solamente negli orari di visita stabiliti dai penitenziari, la seconda parte, quasi in un unico piano sequenza, ci restituisce la vicinanza finalmente acquisita dai due protagonisti che, nella loro casa, coi loro cagnolini, possono trasmetterci i ricordi felici del loro amore, del loro primo incontro, di come in carcere comunicavano con il linguaggio dei segni o di quando Enzo prendeva le difese di Mary minacciando detenuti e secondini.

E come ogni coppia che si rispetti anche Enzo e Mary hanno una loro canzone, Fra cinquant’anni di Nino D’angelo, che parla del loro sogno, un sogno che adesso ha preso vita.

Ed ecco allora la casetta in campagna, con i cani e l’orto, con Mary che provvede al fuoco mentre Enzo raccoglie le sterpaglie. Sembra di tornare indietro nel tempo, in un epoca in cui tutto era più semplice, soffice, caldo. Ritorna qualcosa di mitico e ancestrale, qualcosa che si era perduto, che apparteneva al passato o al mondo dei sogni: un uomo e una donna davanti al fuoco.

Il viaggio finisce qui e, sulle parole di Franco Fortini – “questo è stato, una volta, in una città” – che Marcello recupera da un film di Valentino Orsini, Sopraelevata, una strada d’acciaio, ritorna nuovamente il mare, un mare seppiato sulla cui riva delle ragazze giocano a mosca cieca, con la semplicità di chi ha ancora un animo puro e non può vedere le insidie che le onde nascondono.

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