La rivoluzione parte dal linguaggio

Ha suscitato molto scalpore la lettera scritta dalla presidente della Camera Laura Boldrini lo scorso 4 marzo, rivolta ai colleghi Deputati. Condivisa su Twitter con l’hashtag #NonSiamoCosì, la Boldrini afferma che “in questa legislatura si registra il numero più elevato di deputate, circa il 30%, così come si riscontra un significativo numero di donne che rivestono cariche e ruoli istituzionali, prima ricoperti in via quasi del tutto esclusiva da uomini”, auspicando un adeguamento del linguaggio ad una società in cui la donna può ricoprire qualsiasi ruolo. L’argomento è stato ripreso il giorno seguente, nell’evento dal nome “Donne, parole e immagini” a cui hanno preso parte oltre a Laura Boldrini ed il ministro per le pari opportunità Giovanna Martelli, le vicepresidenti dei Parlamenti francese e spagnolo, Sandrine Mazetier e Dolors Montserrat Montserrat. Boldrini ha ancora una volta sottolineato che “se a svolgere quella funzione, quell’incarico, è una donna, necessariamente dev’essere ministra” proprio in virtù del fatto che il linguaggio deve riconoscere il percorso che la donna ha fatto negli anni. Tra gli interventi, anche quello di Cecilia Robustelli, linguista, collaboratrice dell’Accademia della Crusca, che sostiene che “oggi la parità dei diritti passa per il riconoscimento, anche attraverso l’uso della lingua, della differenza di genere”. Molti commenti sui social network sono tutt’altro che positivi, diversi utenti ritengono che la questione sia alquanto superficiale e comunque il cambiamento di una lingua dipende in primis da un cambiamento culturale.

C’è anche chi la pensa come Rosario Duca, presidente dell’Arcigay Messina, che ha spiegato come “la cultura a volte ha bisogno di battaglie e termini pesanti per cambiare ed il problema sta in questo, siccome ciò che abbiamo ottenuto è poco rispetto alla normalità dei diritti paritari, è necessario raggiungere questo prima di fare altro -come fare discussioni parlando del linguaggio- facciano le leggi paritarie” infatti anche nel caso in cui il riferimento è a lesbiche, gay, bisessuali e transgender, il punto fondamentale rimane l’utilizzo di un linguaggio che eviti stereotipi e discriminazioni, l’utilizzo di termini politicamente corretti può avere ripercussioni positive nella cultura.

Nonostante il dibattito sia molto acceso la questione è tutt’altro che recente e a dimostrarlo può essere d’aiuto il caso di Lidia Poët, la prima donna iscritta all’ordine degli avvocati in Italia, per la prima volta il 9 agosto 1883, si vide revocare qualche mese dopo la possibilità di esercitare la sua professione, proprio in quanto non c’erano leggi che regolamentassero la possibilità per le donne di entrare nei pubblici uffici. Lidia Poët diventò ufficialmente avvocata, solo nel 1920, con la legge n. 1179 del 17 luglio 1919, che consentì alle donne di prendere parte ai pubblici incarichi e alle libere professioni.

Quello che fino a qualche decennio fa era un problema prevalentemente legislativo, ora diviene un problema linguistico, ed è di quest’ultimo aspetto che ci si è occupati negli ultimi anni. I linguisti, sanno che il linguaggio è la base per la costruzione sociale della realtà perciò è necessario adattarlo ad una società che non privilegi il genere maschile e soprattutto non crei differenze tra generi. C’è da aggiungere che le lingue non sono tutte morfologicamente uguali, proprio per questo l’Ufficio di presidenza dell’Unione Europea il 19 maggio 2008 ha accolto la prima serie di linee guida per un uso neutro del genere adattato ad ognuna delle lingue ufficiali. Ciò conferma che non si tratta di una moda, ma di un’esigenza.

A darci uno specchio della realtà è un sondaggio recente fatto da Se non ora quando Genova, dove alla domanda “quando ti riferisci a una donna e al suo mestiere, usi la lingua italiana declinata al femminile?” il 56,4% delle persone tendono a non usare quasi mai il linguaggio declinato al femminile, anche se poi dai commenti è emerso che molto spesso accade perché molte persone non conoscono l’uso corretto del linguaggio, spesso non riescono a femminilizzare in maniera corretta ed usano il maschile temendo di sbagliare. Poi c’è chi pensa che “un lavoro è un lavoro, non un genere” o chi semplicemente ritiene esteticamente brutto dire “ingegnera”.

Sembra esserci dunque una spaccatura tra chi, come Laura Boldrini, sostiene che la declinazione al femminile sia fondamentale per il riconoscimento delle pari opportunità, oltre che grammaticalmente necessaria e chi, come Annamaria Cancellieri, dice “io mi sono sempre fatta chiamare ‘prefetto’ e ‘ministro’ al maschile, perché non ho mai avuto problemi di questo tipo, non mi importa, i temi su cui combattere sono altri”.

Contrariamente a quanti molti sostengono, l’uso di “architetta”, “ministra”, “avvocata”, non è sicuramente riduttivo nei confronti delle donne, tantomeno denigratorio, però rimane rispettabile la scelta di chi, utilizza per consuetudine termini che sono nell’uso comune e non si sente offesa nel sentire declinare la sua professione al maschile. Dopotutto se dovessimo rispettare pienamente le pari opportunità, dovremmo anche smetterla di farci fare il caffè dal barista ed iniziare a pensare ad un “baristo”.