Le indicibili verita’ di stato

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Faccio in tempo a entrare pochi minuti dopo le 18,00 nella sala del cinema Golden di Palermo per l’incontro promosso dal direttore de Il Fatto Quotidiano. Un’amica, con cui avevo appuntamento, rimane fuori insieme a tante persone: “non mi fanno entrare, dicono che sia troppo pieno e per motivi di sicurezza, il teatro ha chiuso l’ingresso”, mi dice al cellulare.

Successivamente, le maschere del teatro, verranno a spulciare le poltrone occupate dai cappotti per contare quanti posti liberi ci sono realmente e dare, così, la possibilità di entrare a quanti sono rimasti fuori. Il cine-teatro Golden di Palermo è pieno all’inverosimile, in effetti.

Domenica sera, uscendo dall’incontro aperto fra la città di Palermo e i giudici del processo sulla trattativa, promosso dal  direttore Padellaro, ho avuto addosso una sensazione di pesantezza mai provata prima. Sul palco, anche Marco Travaglio e Barbara Spinelli che hanno messo in fila fatti che sono allarmanti per i retroscena a cui sottendono. Un clima teso e partecipato assieme. Un “pubblico”, circa 2 mila persone arrivate da ogni angolo delle Sicilia, che ha ascoltato attento le “traduzioni in chiaro” degli strali lanciati da  Totò Riina e che hanno come destinatari, non Nino Di Matteo e i magistrati impegnati nel processo sulla trattativa, ma lo Stato e i suoi massimi vertici istituzionali.

Avvertimenti. Minacce. Chiamate di correo inquietanti destinati a chi, se avesse la coscienza pulita, dovrebbe rispondere in un solo modo possibile: rinviando al mittente certe accuse di compromissione e dimostrando, con azioni precise e inequivocabili, di non entrarci nulla con le parole prive di senso di un mafioso del calibro di Riina. E invece no. Lo stato, nella persona del suo capo, garante e custode della Costituzione e dei suoi organi indipendenti, come è la Magistratura, invece di aprire le porte per dimostrare ai suoi cittadini che nulla ha da nascondere, serra con una doppia mandata ogni ingresso e intima a chiunque che “qui non è permesso entrare”. Il silenzio spesso scomposto e dannatamente rumoroso, dietro cui si trincera il quirinale, non è un silenzio sui “segreti di stato”, ma suona di più come il silenzio di uno “stato omertoso”, come lo definisce giustamente la Spinelli. Sono parole come bombe, dentro un teatro gremito all’inverosimile di persone venute a dare sostegno e vicinanza spontanee alla magistratura palermitana. Uno stato da cui emergono compromissioni e inabissamenti (questa parola torna spesso fra tutti i relatori) che basterebbe un gesto per spazzare via: Napolitano, in quanto capo dello stato, quindi organo costituzionale, dovrebbe semplicemente venire a raccontare alla magistratura, altro organo costituzionale, la Verità. Un normale e adamantino dialogo fra pezzi istituzionali. E dovrebbe farlo dentro il processo, non avvalendosi dei privilegi derivanti dal suo status che hanno il sapore del nascondimento dietro la famosa foglia di fico.

Il capo dello stato si affida, invece, a un messaggio da recapitare alla corte nella quale, con un linguaggio omertoso, dichiara di non sapere nulla. Non vedo, non sento, non parlo. È il linguaggio della mafia, Presidente!

Uno stato che getta le armi, arreso, e che dichiara la sua incapacità nel proteggere UNA sola persona, Nino Di Matteo a cui, nei fatti, è impedito di compiere fino in fondo il proprio lavoro. Non può andare all’udienza in trasferta. La mafia non vuole. Lo stato obbedisce! Forse come ha obbedito altre volte, Presidente? Ce lo venga a raccontare nel solo posto deputato per ascoltarla allora,  ce lo dica dentro un’aula di giustizia di uno stato democratico e libero. Sia trasparente nel suo comportamento perchè così, forse non lo sa, sta disseminando la nostra storia di ombre inquietanti e di sospetti sulla sua persona.

Per ultimo, ma solo cronologicamente, ho fatto un pensiero così orrendo che l’ho subito ricacciato indietro, auto-censurandomi per la paura di averlo anche solo formulato. Non volevo scriverne pubblicamente; poi ho pensato che invece è giusto che tutti sappiano per non avere alibi dietro cui nascondersi. Nelle parole di Di Matteo, a cui è stato riservato uno degli interventi conclusivi, c’era il suo testamento morale. Un passaggio di testimone rivolto ai cittadini a continuare, al suo posto, la lotta per la pulizia etica delle istituzioni. E i testamenti si scrivono poco prima di morire. Se accadrà, signor Presidente, sapremo chi sarà il mandante.

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Letteratura e fornelli sono le mie passioni e, fra queste due attività, divido il mio tempo. Non senza fatica! Che la cucina è cura. E amore. Ma vedere il piacere dipinto sui volti dei miei commensali è una moneta molto preziosa. Una volta uno chef disse che chi mangiava le sue pietanze era come se stesse dando un morso alla sua anima, una specie di eucarestia laica. Lo penso anch'io! I miei racconti? Nascono dalla realtà che frequento, dalle piccole grandi storie che ogni famiglia custodisce, gemme preziose che voglio liberare dal buio dell'oblio. Racconto i racconti che mi raccontano, racconto la mia storia. Scrivo ciò che mi ispira. "L'ispirazione è il mio tavolo di lavoro" diceva Baudelaire: a mescolare gli ingredienti poi ci penso io. E' l'arte dell'attesa: in cucina, come per scrivere un testo, non bisogna avere fretta. Ogni elemento ha un suo tempo specifico di reazione, un suo tempo di "riposo" e uno di "lievitazione". Sui fuochi o dentro l'anima.

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