Tutta la Storia ha la dignità per essere raccontata
La spedizione dei Mille è – oggi come allora, in questo Paese che dimentica facendo finta di ricordare, che insulta ed offende credendo di onorare la Storia – il mito di un popolo unito. Le camicie rosse sono la leggenda, gli eroi di una Nazione, nella loro forza, nella loro tempra, nel loro coraggio. Nel sentimento, nella tensione verso un’Italia che non c’era ancora. Nel sacrificio, nell’animo che porta a combattere lontani dalla propria casa, dalla propria realtà, dalla propria vita. Nell’ardimento, nell’audacia di questi uomini, che strada per strada strapparono Palermo – e la Sicilia tutta – al dominio borbonico, che persero la vita per questo, come Lajos Tüköry, e ai quali oggi rimane solo una targa, e lo strombazzamento delle auto che arrivano senza pietà da via Maqueda, via Oreto e piazza Giulio Cesare. Questi uomini, che dal Piemonte, dal Veneto, dalla Lombardia – le regioni italiane che oggi allevano fra le nuove classi dirigenti trote e ed altre bestie – accorsero alla causa siciliana, quasi chiamati nella loro azione dai moti di rivolta palermitani, i primi di quella Primavera dei popoli che agitò il 1848 europeo che fulminò i regimi dell’Occidente, saldi nei loro principi di equilibrio e legittimità, illegittimi nelle proprie restaurazioni autoritarie.
Fu il ’48 palermitano di Ruggero Settimo a chiamarli, i garibaldini, i moti repressi di Rosolino Pilo e Giovanni Corrao, le insurrezioni antiborboniche soffocate nell’orrore, gli spiriti rivoluzionari di Francesco Bentivegna, Salvatore e Antonio Spinuzza, Alessandro Guarnera, Andrea Maggio, Carlo e Nicola Botta, Cesare Civello. Fu il sangue popolare a pretendere la fine dell’oppressione borbonica, delle angherie, dei soprusi. Fu il sangue versato del popolo a chiedere vendetta, il sangue versato dalla ferocia del “Re Bomba” Ferdinando II, e dei suoi ascendenti. Lo stesso sangue popolare che continuò a scorrere ad Unità d’Italia completata, lo stesso identico sangue che tinge le mura delle città ed impregna il terreno di un’isola martoriata, stracciata, sbriciolata. Abbandonata nelle mani dei padroni di sempre, dei latifondisti che hanno cambiato nome, ruolo, palazzi e cocchieri, ma che sempre continuano a spremere una terra esanime, che sempre continuano a sfruttare una popolazione debole e sconfortata, nelle mani della mafia, che comanda e comanderà, che uccideva uccide ucciderà, se non il corpo, l’anima di un suolo senza più lacrime. Lo spirito di un territorio che solo chi lo disprezza può amarlo fino in fondo.
Era il 17 Maggio 1860, uno due tre, sei giorni dopo il glorioso sbarco dei vapori Piemonte e Lombardo a Marsala. L’aria di liberazione si avvertiva nel tepore di fine Primavera siciliana, non quella della conquista dello straniero. Garibaldi era il riscatto per i contadini siciliani, sfruttati e calpestati, il riscatto contro i vecchi e i nuovi nobili, contro la fame e la miseria, era la dignità del lavoro di una terra propria, libera dalla servitù opprimente e dall’elemosina signorile, l’Eroe dei due mondi era la salvezza per la rabbia degli ultimi. Era Alcara Li Fusi, quel giorno, il 17 di Maggio, nell’aria fresca e serena dei Monti Nebrodi, Sicilia nordorientale. Era la fine della messa, il vocio e gli schiamazzi si concentravano in Piazza della Matrice, erano i contadini, gli zappatori affamati dalla Chiesa e dai «cappeddi», dall’aristocrazia in declino e dalla borghesia meridionale nascente – che, più tardi, si sarebbe mostrata nella sua vena altrettanto parassitaria e borbonica. Era la sera del 16 di Maggio ad Alcara, la sera prima dell’esplosione, che il giuramento segno il destino di braccianti già liberi, liberi nell’idea, nella forza di agire, di non sopportare ancora: il segnale al grido «Giustizia!» di Turi Malandro Fragapane, «capo dei bracciali» – ci racconta Vincenzo Consolo, nel suo capolavoro: il romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio, del 1976. Quello che fu il giorno seguente era la vendetta dei sopraffatti, e furono le grida e le bestemmie contro i “civili”, impegnati al casino della Compagnia, e il frastuono dei denti più che delle lame dei contadini verso i padroni.
Del perché della violenza Consolo è maestro nello spiegarci:
«Piegato in due. Zuppa la camicia e il gilè, il fazzoletto al collo, con quel sole di maggio che ancora gli mordeva sulle spalle. E dava, con furia e passione, legato alla speranza che que’ quattro tumuli di terra forse presto, domani, chi lo sa… E non pensava ad altro. Ch’a questa idea antica, familiare, per cui scivolava nell’assopimento, nell’oblio di sé nella fatica. E non sapeva più d’essere un uomo, Giuseppe Sirna Papa, nato ad Alcara, di anni ventisei, bracciale, figlio di Giuseppe, marito a Serafina… E non sapeva del luogo, dell’ora e la stagione. Solo lo stridere della zappa sulla terra e le pietre, e lui incantato, appresso, hah hah, come asino cieco dietro al cigolar di secchia della sénia. Ma gli cadde d’un tratto la zappa dalle mani, si piegò sulle ginocchia, e con lamento fievole scivolò bocconi sulla terra. Ansimava, “mamma” ebbe il tempo di dire, e vomitò. Si pulì il muso di furetto e si girò supino, le braccia aperte. Strizzò gli occhi alla vista d’un grande cielo rosso, fiammante, pel sole che scivolava verso il ponente. Chiuse gli occhi e si premette con la mano il cuore che galoppava dentro come un puledro. S’alzò a sedere, s’abbracciò le gambe e abbandonò la testa sopra le ginocchia.»
Toccò quindi alle nuove forze italiane garantire ai «cappeddi» spaventati che nulla era cambiato, che cambiava il re, ma non la società. Che giustizia sarebbe stata fra gli insorti dell’Alcara, fra «que’ scellerati borboniani». La nuova mano del potere unitario sembrò più forte di quella vecchia e fiacca del Borbone fuggito; essa garantiva l’appoggio dei «cappeddi», dei latifondisti, dei mafiosi. Il 20 Agosto 1861, così, in quel di Patti, nel Piano di S. Antonio, 12 uomini, senza neppure un conforto religioso, vennero fucilati sotto il nome di Vittorio Emanuele Re d’Italia, 12 uomini senza processo, 12 braccianti analfabeti e sfruttati.
Furono sedate così le rivolte di Mistretta, Caronia, Francavilla, Bronte. La mano del padrone si continuava a sentire, possente più di prima, stretta sulle vite immobili dei pastori e dei braccianti, dei poveri di sempre, i padri degli sterminati di Portella della Ginestra nel 1947, i nonni dei morti di Avola nel 1968. Tutto ciò che venne dopo l’annessione siciliana al “nuovo” Stato, in Italia lo chiamarono “brigantaggio”.
PORCA LA TALIA
PORCO LO RE
E PORCO GARIBARDO
GIUDA DI COLONNELLO
CHE CI DISARMÒ
VIVA LO POPOLO
VINDITTA SOPRA VINDITTA
AMARO A CHI
PER SORTE SI APPRESENTA
ANCORA A ME
E DICE PATRIA UNA E MONARCHIA
FACCIO CHE FECI A
NOTARO BARTOLO
CAPO DI COSCA E DI LADRONERIA
COLLE MANI LO STROZZO
E SPACCO IN DUE
LA PETRA SUA DEL
CO RE
(da Il sorriso dell’ignoto marinaio, Vincenzo Consolo, 1976)