L’odio online parla il linguaggio della politica

Migranti e minoranze nel mirino dell'odio. Donne tra le più colpite dagli hater che non si nascondono più.

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“Centinaia di migliaia di persone incitate al disprezzo e alla violenza verso due terzi del genere umano, allo scopo di raccogliere consensi elettorali”.

Inizia con queste parole il rapporto “Il barometro dell’odio“, monitoraggio condotto da Amnesty International Italia sulla presenza del linguaggio d’odio (hate speech) nelle campagne elettorali social dei candidati alle ultime elezioni europee.  

Dal 15 aprile al 24 maggio Amnesty International Italia ha raccolto, attraverso appositi algoritmi, oltre 4 milioni di contenuti dai feed Facebook e Twitter dei candidati al Parlamento europeo delle principali liste. Circa 180 attivisti dell’associazione, appositamente istruiti, ne hanno valutati 100.000, con l’obiettivo di rilevare le eventuali correlazioni tra toni e messaggi veicolati dalla politica e sentimento degli utenti dei social rispetto a determinati temi e gruppi di persone. Il risultato? La campagna elettorale 2019 per il Parlamento europeo è stata pervasa da contenuti problematici e discorsi d’odio.

Più di 1 contenuto su 10 (il 11,5%) dei 100mila post, tweet e commenti valutati nell’ambito di questo monitoraggio è risultato essere offensivo e/o discriminatorio o hate speech. Limitandoci al solo hate speech incontriamo circa 1 caso ogni 100 contenuti.

Nel mirino ci sono migranti, rom e musulmani mentre le donne sono tra le più colpite dagli hater.

È significativo osservare – sottolinea il rapporto – che il tema donne, sul quale i politici non si esprimono in modo problematico, è il terzo tema tra i commenti degli utenti (dopo immigrazione e minoranze religiose) per incidenza di commenti offensivi e/o problematici col 37%. Le donne in politica ricevono inoltre più del doppio degli attacchi dei colleghi, oltre 1 su 4 è di tipo sessista.

Il rapporto presenta inoltre delle tabelle che mostrano i dati riguardanti la comunicazione dei candidati/leader monitorati. In una delle tabelle ad esempio viene isolato il candidato/leader che ha registrato il maggior numero di interazioni per ognuna delle 8 principali liste.

Oltre il 51,5% d’interazioni ricade sotto un unico nome, quello di Matteo Salvini. Gli altri esponenti seguono ad ampissima distanza e solo sei tra loro superano la soglia dell’1% d’interazioni: Luigi Di Maio (14,5%), Giorgia Meloni (8,3%), Silvio Berlusconi (3,6%), Silvia Sardone (2,7%) Carlo Calenda (1,7%), Nicola Zingaretti (1,3%).

Il risultato consiste in un dibattito politico online gravemente sbilanciato, in cui i temi prevalenti e l’accezione con cui sono trattati sono determinati da pochi.

La politica, inoltre sembrerebbe legittimare l’azione dell’hater. “Se è vero che i politici, anche i più “istigatori”, di solito non ricorrono agli insulti e all’hate speech propriamente detto – specifica il rapporto – il messaggio è lo stesso”.

Altro aspetto fondamentale inoltre riguarda proprio la figura dell’hater che passa dalla dimensione anonima a quella “pubblica”.

Lo spiega Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicoanalista, ordinario di Psicologia Dinamica alla Sapienza Università di Roma.

«L’odiatore non è più l’anonimo leone da tastiera, quello che lancia il sasso di un tweet e poi nasconde la mano. Oggi si fa riconoscere. Vuole farsi riconoscere! Ha il petto in fuori e rivendica la ribalta. Non si sente più solo, ma legittimato. Si tratta di un cambiamento radicale e preoccupante. I bersagli dell’offesa, invece, sono sempre gli stessi. Silenziose o rumorose che siano, infatti, le maggioranze (vere o presunte) hanno bisogno di confermare se stesse attraverso un capro espiatorio. Lo scelgono nei mondi che non capiscono, e inconsciamente temono, oppure che considerano “deboli” e di poco conto: di volta in volta le donne, le persone non eterosessuali, disabili, oppure quelle che appartengono a culture, religioni ed etnie “diverse” per non dire “impure”».

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