Manicomio Criminale

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Manicomio
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Inverno 1982.
Manicomio criminale di S. Pueblo.
Appunti del dott. Mark Heiden. Ore 22,30.
Monto di servizio per il mio turno di notte. La serata, stando alle parole del mio predecessore, è scivolata via tranquilla. Nessuno dei pazienti ha dato nelle solite escandescenze. Poche le persone in sala video. Qualcuno per i corridoi. Qualche lite contornata da urla, ma niente di più.
Ora le luci sono spente nel braccio D. Tutti dormono, o perlomeno se ne stanno nei loro letti senza dare fastidio o creare confusione. Mi sono portato qualcosa da leggere, come faccio sempre quando lavoro di notte. C’è anche un piccolo televisore, ma non l’accendo mai. Mi verso un po’di caffé caldo dal thermos. Piedi sulla scrivania. Mi rilasso e sprofondo nella lettura. La porta è socchiusa, caso mai qualcuno si svegliasse e avesse bisogno di essere tranquillizzato. La lampada, soffusa, manda la mia ombra, ingigantendola, sulla parete alle spalle. Fuori il vento urla nel ventre silenzioso della notte.
Il tempo passa. Ha cominciato a piovere. L’orologio a cristalli liquidi ha appena segnato la mezzanotte quando un rumore improvviso mi desta dal mio tiepido dormiveglia. Mi alzo in piedi e corro immediatamente fuori, nel corridoio. Non riesco a capire da dove provenga. Forse dal bagno. Mantengo la calma. Non è la prima volta che qualcuno si alza nel cuore della notte e ha bisogno di aiuto. Ma una voce interiore, metallica, continua a ripetermi che questa non è come le altre volte. Comincio a sudare freddo. Uno strano tremolio si impossessa delle mani e degli arti inferiori. Mi faccio forza. Perché devo avere paura?
Mi avvicino, cercando di non farmi sentire. Una lama di luce penetra da sotto la porta, chiusa. Odo un rantolo, che si ripete, a intervalli regolari di qualche secondo. Come se al di là ci fosse un animale ferito che si lamenta. Qualcuno sta vomitando. Uno dei pazienti sta male. Tutto qui. Afferro la maniglia, ma la mano mi scivola. È unta, non so di cosa. Cerco di mettere a fuoco avvicinandomela agli occhi. E’ sangue. Fresco. Ci sono tracce anche per terra, sul pavimento.
Con un gesto istintivo apro di scatto e mi precipito dentro. Tre persone.
In un angolo un viso terrorizzato mi osserva, in lacrime. E’ Paul, un ragazzo epilettico di venticinque anni. È seduto contro la parete. Il suo pigiama e le sue scarpe sono sporche di sangue e vomito. E’ decisamente sconvolto. Un tuono mi fa sobbalzare, spezzando il silenzio. La luce sul soffitto oscilla, avanti e indietro, come un pendolo al rallentatore. La pioggia aumenta d’intensità. Inginocchiato, di schiena, un uomo, in camice bianco. E’ il dottor Philip Waine. Lo riconosco dalla folta capigliatura. E’un collega del reparto di neuropsichiatria dell’ospedale. È pallido come un lenzuolo. Gli zoccoli che ha ai piedi sono imbrattati di un rosso vivo.
A terra, disteso supino, con lo sguardo fisso nel vuoto c’è Albert, un vecchio di ottant’anni affetto da demenza senile. Cadavere. Con uno squarcio all’altezza del collo. Sembra sorridere. Mi accorgo immediatamente che la ferita è alquanto strana. Non è stata di certo provocata da un’arma da taglio. Un coltello non fa quel lavoro. Non è stato sgozzato, quindi. Sembra piuttosto che qualcuno gli abbia rosicchiato il collo, fino ad aprirglielo. È certamente morto dissanguato.
– Non c’è più niente da fare. È andato – mi risponde il dottore con la bocca leggermente sporca di sangue. – Ho tentato di fargli una respirazione. Ma era troppo tardi.
– Chi cazzo è stato a ridurlo a quel modo? Paul?
– L’ho trovato in preda a una forte crisi di nervi – mi risponde il dottore – era riverso sul corpo del povero Albert e lo stava sbranando. Cristo! Per poco non vomitavo la cena. Gli ho dato un sedativo e l’ho fatto sedere. Ora bisogna immobilizzarlo. Vai a prendere una camicia di forza. Io, nel frattempo, telefono alla polizia. Sbrighiamoci.
Spenta la luce, usciamo. Paul resta lì, come un bambino, rannicchiato per terra, succhiandosi il dito. Due mandate di chiave.
– Così non può fuggire, mi dice il dottore – sorridendomi. – La finestra ha solide sbarre. D’acciaio Ci vediamo qui fra cinque minuti.
Mi dirigo allo studio. La solita voce nella testa mi dice che in quel orrore c’era qualcosa che non andava. Mi avvicino alla scrivania e apro il cassetto. La luce si spegne all’improvviso. Con uno scatto mi butto a terra e faccio fuoco. A caso, nell’oscurità. Tre colpi. Un tonfo. Silenzio. Aspetto, con l’arma in pugno. Niente. Ancora silenzio. Mi rialzo. La spalla mi fa male. A tentoni raggiungo l’interruttore. Steso a terra, il dottor Waine mi guarda. O sembra guardarmi. Uno dei proiettili l’ha centrato al cuore. È morto all’istante. Sulla bocca nuove tracce di sangue.
Allora capisco. Mi precipito in bagno. La porta è spalancata. La luce accesa. Paul è accasciato su se stesso. Il collo lacerato. Cadavere.
Ancora una volta è troppo tardi. Maledizione.

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