1974 – Si guarda indietro e sente che le sue radici la stringono ancora, ma non c’è piu terra da succhiare. Un maglione color cioccolato, sopra quei jeans che suo padre non gli aveva mai permesso di indossare, troppo attillati, diceva. Un cappello, guanti, sciarpa e stivali col pelo, dicono che al nord fa freddo e lei viene dalla terra del sole.
È il Maggio del referendum sul divorzio, del tira e molla al processo della strage di Piazza Fontana, del nucleo di Dalla Chiesa.
In viaggio ripensa ai suoi amici di sempre. Li aveva incontrati prima di partire, nello scantinato, le avevano comperato un cappello nuovo e lasciato addosso il profumo di abbracci e auguri che le riempivano il cuore, e gli occhi. Una voce aveva stonato “l’emigrazione ha impoverito il Sud” diceva, “ha allargato la crepa!” l’avrebbe voluta per sempre vicino a lui, lo diceva per questo, forse.
Negli ultimi 20 anni 4,2 milioni di persone avevano scelto di migrare al nord, i suoi cugini, tute blu per mamma Fiat, si erano trasferiti a Torino nel ’63, loro non avevano terminato le scuole come lei.
Fiat li metterà in cassa integrazione nell’Ottobre seguente, per la crisi del settore automobilistico.
Appena scesa alla stazione un brivido lungo tutta la schiena, non era il freddo. Aveva con se il termos del caffè che la nonna le aveva preparato, sedette su uno scalino della stazione, era chiara, bionda, i tratti erano quelli di una pallida porcellana, non rendevano giustizia alle brune origini, accanto a lei due giovani torinesi le sorridono, fra loro: “tutti sti napule! Non c’è da fidarsi, poi fanno arrivare troppi parenti, non vorranno mica trasferirsi tutti qua! Non c’è posto.”.
Torino era un sogno, profumava di polveri e rinascimento, maestoso snodo del commercio e dell’industria, gioiello architettonico della Famiglia Reale, solo la gente sembrava strana, stranita, i suoi cugini abitavano appena fuori Torino e lei capì presto il perchè.
Portava con se la lettera di raccomandazione della preside della scuola e l’attestato di dattilografia, in testa le parole del cugino “si non ci fai capiri chi si siciliana è megghiu!”, strana raccomandazione.
“Non si affitta ai meridionali” diceva un cartello sulla cancellata di un palazzone in Via Garibaldi, poco dopo un altro, e un altro in piazza Castello poi un altro e un altro ancora.
Siamo noi quelli di cui non ci si può fidare?
Si abbandonò stremata sul sofà, era li per trovare fortuna, lavoro, costruire un futuro migliore. Eppure sembrava che la bella Torino non volesse accoglierla, lei era del sud e il sud era il male. “Zoticoni!”, “Analfabeti”, “Contadini”, “Napulè!” La sua gente era discriminata, ma lei doveva essere più forte. Alla radio Celentano canta un incomprensibile rap: “Io ho capito che oggi nel mondo non ci capiamo più, proprio è difficile, non c’è dialogo ormai”.
2014 – Non che disprezzasse cio che aveva già, ma per una come lei, non era abbastanza. Un maglione color smeraldo, a collo alto, jeans attillati, i suoi preferiti, non li indossava da quando quella volta il capo non aveva resistito all’impulso di toccarle il culo. Sciarpa e cappello abinati, erano il regalo della sua più cara amica, “Fai bene ad andar via, mi mancherai, certo, ma questa terra non ti merita”. Quella terra, la sua terra, l’avrebbe vissuta per sempre se solo le avesse dato da vivere.
Adesso era ora di scrivere un nuovo capitolo della sua storia, di stabilire un equilibrio, che non sta mai bene accanto alla parola precario, vedi il vuoto sotto e basta un capogiro, vai giù.
Dicembre del Jobs Act al Senato, dello scandalo Mafia Capitale, dello sciopero generale dei lavoratori. In mezzo a quei volti stanchi e i bagagli chiusi a stento cammina fiera verso la sua nuova vita, colma di speranza e fiducia, poggia lo zaino a terra al lato del bancone, il barista le sorride e prepara il caffè. Macchiato. Scopre un tatuaggio sulle curve olivastre proprio sopra i jeans, i capelli neri e lunghi, gli occhi color cioccolato firmano il profilo tipicamente meridionale. Le si avvicinano due ragazzi, l’accento torinese marcato, “Hai bisogno di un passaggio? Dividiamo la benzina fino in centro”.
Torino è la metropoli della cultura, le strade brulicano di studenti e profumano di curry e kebab.
Passeggia tra i mercati e i banchi dei libri usati. Ogni piazza un abbraccio, ogni angolo una sorpresa dal mondo. La rassicura l’assetto multiculturale della città, capitale dell’artigianato e del commercio, del fai da te e del fai per tre. Segnata da un importante aumento del flusso migratorio negli ultimi decenni, 140.000 stranieri, 18.000 nati in città, 30.000 tra 0 e 20 anni, torinesi di fatto, ma non per la legge italiana, perfettamente integrati tra comunità e condivisione dello stesso territorio.
Nello zaino la faticata pergamena dell’Università di Filosofia e gli attestati. Prenderà casa in centro: c’è Marta, che è nata in Calabria, Federico, originario pugliese, Lorenzo, mamma argentina papà di Palermo, Fatima, palestinese, Umberto, romano de Roma.
Produttività, economia, cultura e tolleranza, queste la renderanno più forte.
Alla radio un gruppo siciliano riprende un rap del ’74.
Giovanna Romano