“Un granello di sabbia in un meccanismo quasi perfetto” lo considerò il dott. Fabio Repici, avvocato della famiglia Alfano: il meccanismo è quello affaristico mafioso della città di Barcellona Pozzo di Gotto (sulla costa tirrenica della provincia di Messina) che con le sue inchieste precise e metodiche, Beppe Alfano rischiò d’inceppare. Tra meno di un mese ricorreranno i 17 anni dall’omicidio di uno tra i più talentuosi e professionali giornalisti, nonché spirito libero per eccellenza, che la storia ricordi: e la lista delle vittime nella categoria per l’accertamento della verità ed in funzione antimafia è numerosissima, così come copioso è il sangue versato dagli stessi cronisti. E’ bene rammentarlo, specie in un momento in cui la stessa funzione del giornalista sembra essere posta sempre più spesso in discussione, quasi che sia un fatto naturalmente consequenziale – una sorta di necessità evolutiva, o forse sarebbe meglio dire ‘involutiva’ – per un giornalista oggi l’appartenenza ad uno schieramento, quasi fosse ormai non più praticabile o addirittura paradossalmente ‘scandaloso’ continuare ad operare senza un padrone.
Certo, si lavora in condizioni sempre più difficili ma di questo tratteremo in altri tempi, insieme all’inoppugnabilità di una resistenza etica nel nome delle nostre coscienze ed in memoria di eroi quotidiani come Alfano, immolatisi per un senso ineliminabile di onestà e di giustizia.
Beppe Alfano, dopo varie esperienze, lavora dal 1991 quale collaboratore da Barcellona P. G. per il giornale ‘La Sicilia’ di Catania; indaga sugli appalti pubblici dell’asse Messina-Palermo e sugli interessi del ‘sistema Barcellona’ dell’epoca, seguendo sia la vicenda dell’erogazione ‘viziata’ dei contributi dell’Azienda di Stato per gli interventi nel mercato agricolo (AIMA) sia le storture dell’Aias, associazione per l’assistenza agli spastici ma anche punto focale di snodo di svariati miliardi ed assunzioni pilotate e clientelari. Ha varie cose da dichiarare (è un giornalista molto bravo e scrupoloso Alfano) ma i vari personaggi istituzionali – di destra e sinistra – incontrati non sembrano aver tempo per lui e spesso nemmeno lo stanno a sentire. Lo ascolta con molta attenzione solo il giudice Olindo Canali, Pm del nuovo Tribunale di Barcellona, nato da poco, che accetta di collaborare con lui e per un certo tempo il sodalizio si rivela fruttuoso per entrambi: Alfano ha modo di confidare varie informazioni ed ottenere conferme, Canali di usufruire della metodica opera d’indagine del brillante cronista. Barcellona, per molto, troppo tempo trascurata dal punto di vista dei rapporti criminali, non è più la florida cittadina di una delle due cosiddette ‘province babbe’ (Messina e Siracusa), come un tempo ‘cosa nostra’ soleva definire i due comprensori ma in loco “è cresciuta nel tempo una criminalità di un certo peso, determinata tra l’altro dall’esecuzione dei lavori per il raddoppio della ferrovia, da altri lavori pubblici, dallo sviluppo turistico, in particolare sul mare (l’isola di Vulcano e le Eolie sono fortemente turisticizzate). Tutto questo ha sorpreso le autorità istituzionali e quelle giudiziarie, per cui solo da poco tempo si manifesta una reazione appena adeguata. Ci è stato segnalato che la procura distrettuale di Messina ha la metà degli organici di cui dovrebbe disporre ed è quindi priva dei mezzi per intervenire. Il procuratore di Messina ci ha detto che intervengono su Barcellona solo quando da quella città segnalano qualcosa.” (Dalla Relazione della Commissione Antimafia presentata in data 23 gennaio ’93).
Il lavoro d’indagine di Alfano diventa presto non più tollerabile, poiché rompe la quiete affaristica della città in un luogo nel quale in tanti hanno paura e abbozzano, quando non conniventi, osservando da un’altra parte e dove altri, non sanno nemmeno, dato che le informazioni fornite sul malaffare, a parte il coraggioso cronista, sono assai scarne.
L’8 gennaio 1993, Beppe Alfano rientra a casa con la moglie sulla sua auto rossa. Dopo aver parcheggiato e raggiunto il portone di casa, Alfano si ferma di colpo, osserva nel buio (sono quasi le 22 e 30) e comincia a correre, sparendo per alcuni minuti dietro l’angolo e dalla vista della donna, molto preoccupata. Appena tornato, cerca di tranquillizzare la moglie, esortandola a rientrare in casa e raccomandandole di chiudersi dentro. I fatti sono noti perché è la stessa moglie di Alfano a raccontarli prima alla figlia Sonia, oggi Parlamentare europeo, poi nelle sedi giudiziarie.
Beppe Alfano riparte con l’auto, avendo certamente visto qualcosa di particolare che lo spinge ad agire così. Sonia Alfano apprende solo dal dialogo tra due giornalisti della morte del padre, avendo ripetutamente tentato di mettersi in contatto con lo stesso tramite cellulare: Alfano è ritrovato a una trentina di metri di distanza da casa sua, sulla propria auto, ucciso con tre colpi di pistola sparati a distanza ravvicinata. L’assassinio di un coraggioso cronista, ignorato dalla città e dalle Istituzioni, a parte il giudice Canali, con il quale quella stessa sera avrebbe dovuto incontrarsi, è ormai definitivamente compiuto.