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Nebrodi Art Fest, quel che e’ stato e’ stato

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C’è un maledetto filo rosso che unisce tutte le storie ascoltate durante i dibattiti nei giorni di svolgimento del Nebrodi Art Fest giunto ormai alla sua quarta edizione, ed è che lo Stato è il più grande, il più spietato, il più indifferente dei nostri nemici. Questa è, purtroppo, la sensazione amara che se ne trae. La cornice che circonda le giornate del festival è superlativa, così bella da togliere il fiato: una natura che si mescola alle case, alle persone, anzi, ne fa parte. E ti prende il magone se pensi che questi luoghi di montagna, ma a due passi dal mare, hanno cominciato a franare molto tempo prima che la sciagura di Giampilieri cancellasse dalla carta geografica un paese, molte persone e, insieme a loro, la memoria e il coraggio che ci vuole per non andarsene altrove a cercare fortuna. Con la morte dentro al cuore e attorno a te. Nonostante distese a perdita d’occhio di noccioleti che avrebbero potuto cambiare il destino economico di questi luoghi ma che in Piemonte sono diventate un’eccellenza. E’ inutile: devi andartene. Molti lo fanno, i giovani non hanno scelta e seguono lo stesso destino dei padri: emigrano. Magari oggi possono vantare una laurea conseguita con enormi sacrifici, ma il risultato non cambia: si assiste allo scempio delle nostre intelligenze migliori che vanno a cercare maggiore fortuna in un altrove che non cambia la condizione dell’essere migrante. E’ una storia troppo simile a quella che hanno raccontato i due giovani, un liberiano e un senegalese giunti in Italia in tempi diversi. L’Italia, nodo di passaggio obbligato nella fuga dal proprio Paese, una fuga per la vita. E così ci tocca di riascoltare ancora una volta le storie cariche di dolore di questi uomini e di queste donne: passati da guerre, carestie, violenze di ogni genere, sulla pelle o dentro l’anima. La violenza che costringe a spezzare le catene degli affetti, a non sapere più per tutta la vita che fine hanno fatto madri, padri, figli, sorelle, amici. Niente, tutto quello che sei stato si è cancellato, spezzato, finito in un buco nero di cui è impossibile vedere il fondo. E ti vergogni quando questi moderni Kunta Kinte ti danno lezione di dignità che noi abbiamo smarrito, che hanno avuto la forza di alzare la testa non riuscendo più a sopportare oltre il sopruso dell’uomo sull’uomo; quello smarrimento di senso che ci impedisce di vedere gli occhi di un nostro fratello scappato via con la stessa paura e speranza di quando eravamo noi a partire con valigie di cartone,  lasciando tutto e tutti. Dimenticati, cancellati. Un non vissuto che nessun racconto potrà colmare nell’arco di quei pochi giorni di ferie annuali. Loro, rinchiusi come i nostri nonni dentro gabbie, quando sognavano l’America come una Terra Promessa che li riscattasse dalla miseria, guardati a vista da carcerieri senza coscienza di esser uomini, guardiani senza alcun Dio, né umanità. È questo il solo momento in cui lo Stato si ricorda della sua identità: quando costruisce prigioni senza avere il coraggio di definirle tali, preferendo la più ipocrita definizione di centri di “accoglienza”. Rimani qui, in questo non luogo di negazione di ogni diritto. Ci hanno costruito attorno un reato: la clandestinità.  Mi chiedo da quando venire al mondo, nascere e aspirare alla dignità sia un reato. Lesa maestà all’opulenza dell’Occidente. Non prima però di averti sfruttato grazie alla solerzia di qualche caporale che è disposto a chiudere un occhio e prenderti a lavorare dall’alba al tramonto per un pugno di euro se le offri in pasto una sorella o un’amica con cui divertirsi qualche ora. Do ut des.  E poi si può tornare sereni a casa, con i genitali soddisfatti di tanto maschio esercizio, pronti a dare lezioni di moralità ai nostri figli. Atti compiuti da uno Stato che è universalmente riconosciuto come patria del diritto.

Oppure ti tocca di ascoltare la storia di un giovane che ha provato a tornare, che ha creduto nelle potenzialità della sua terra, della Sicilia e della sua millenaria storia, che ha provato a raccogliere le perle abbandonate dai padri in fuga, molti anni prima. Si sa, la storia ha i suoi corsi e i suoi ricorsi. Ha provato a pulire dal fango quelle perle, a ridargli splendore perchè tornassero a dare frutti. Da mangiare, da dividere con altri, con cui si parla per vedere se si riesce a incrementare lo sviluppo facendo rete comune. Ha creduto alle promesse, alle leggi, alle banche. Con entusiasmo (ingenuità?) ha creduto che un altro mondo davvero fosse possibile; un mondo che premia chi sa restituire valore a ricchezze di inestimabile pregio naturalistico: ce lo siamo ritrovato lì questo tesoro, non dobbiamo cercarlo altrove. Calpestiamo ogni giorno il suo suolo. Dobbiamo, da bravi contadini, solo restituirgli la sua naturale fecondità. Eppure questo ragazzo deve scontrarsi quotidianamente non solo con la pratica mafiosa, che dovrebbe essere l’Antistato, ma con l’essere profondamente e intrinsecamente mafioso di chi, magari indossando una divisa, anziché incoraggiare, curare e proteggere chi a questo Stato illegale si ribella, lo invita a lasciar perdere, sminuendo quel che racconta o non raccogliendo le sue denunce. E così si resta soli, indifesi. E così si diviene bersagli fin troppo facili. E così ti danneggiano gli irrigatori, così la smetterai di coltivarlo quel tuo sogno di terra che scopre perle coperte dal fango e restituisce magnifici frutti. E se fatichi a credere, se il messaggio non fosse chiaro, se continui a ostinarti a volere rimanere, dimostrando cos’è la dignità di essere uomo, questa volta saranno le tue pecore ad essere ammazzate. E per non correre il rischio di scambiarlo con  un banale incidente, la testa di una delle pecore viene lasciata mozzata e sanguinante davanti la tua porta. Più chiaro di così! Mi vengono i brividi a guardare questo ragazzo dentro gli occhi, a guardare il suo coraggio farsi voce, incurante dei rischi cui continua a esporsi. Ostinato e pieno di ideali, ma concreto come la terra che le sue mani hanno coltivato. Parlarne davanti a tutti mette noi con le spalle al muro, ci inchioda alla nostra condizione di cittadini di questa repubblica, ci lascia nudi di fronte alle nostre responsabilità. Senza scampo né alibi.

Vi piacerebbe cantarcele in musica, vero? Quindi vi è saltato in mente di riprendervi un teatro sistemato sul proscenio davanti lo Stretto. Ma cosa credete di poter fare? Sgombrate immediatamente, che siete degli abusivi. Forza, forza che ho chiamato rinforzi pure dalla Calabria per ricacciarvi indentro. Che la legalità venga ripristinata il prima possibile. Presto, fate presto soldati! L’ho sempre detto che la cultura è roba pericolosa. D’altra parte per fare le veline mica occorre conoscere Shakespeare! E se poi vorreste fare il salto di “gualità” fino a occupare qualche scranno parlamentare, a che ti serve quella robaccia d’altri tempi come la Costituzione, la libertà di pensiero o la libertà di espressione artistica? Tanto è tutto a senso unico: il mio. Basta e avanza…

Una terra violata in cui la legalità ha il volto della illegittimità quando non della vera e propria ingiustizia, dell’abuso, che ha sospeso il diritto umano, che ha ceduto la sua sovranità territoriale  a favore di uno straniero che ci usa per muovere guerre infinite e super tecnologiche ai danni di quelli che poi respingiamo una volta giunti alla nostra frontiera. Non vi azzardate a scappare che noi dobbiamo uccidervi, che noi dobbiamo depredare petrolio e ogni sorta di ricchezza per farci gli affari e gli interessi nostri. E voi mamme No Muos, piantatela di frignare e starnazzare: Niscemi non è vostra! Ce l’hanno venduta in tanti, anche chi sembrava darvi ragione. E pazienza se fa male, se è veleno quello che ammorba l’aria che respirate. D’altra parte ci dovreste essere abituati. Ricordate Gela? Si proprio Gela, la stessa città magistralmente amministrata dall’attuale governatore, quella in cui una gravidanza viene vissuta con nove mesi di angoscia per la paura di partorire mostri. Così come ad Augusta o a Milazzo. D’altra parte a voi decidere: morire di fame o morire di lavoro. Ma tanto morite lo stesso. Disoccupati. Una bella scelta, no?

Ma se a questo punto lasci la Sicilia e ti spingi fino al Piemonte non aspettarti uno Stato dal volto umano. Per carità! Vuoi anteporre i tuoi piccoli, insignificanti interessi personali di fronte a un interesse maggiore che offre tanta ricchezza a un centinaio di speculatori? Suvvia, sii comprensivo no? Cosa vuoi che ci importi del tuo orto, di casa tua e di una linea ferrata dai costi gonfiati quando qualche briccone ha la possibilità di guadagnarci moltissimo? Cosa dici? Che non ha senso parlare di alta velocità quando ci vogliono otto ore per andare in treno da Palermo a Trapani che distano poco meno di 100 km? Eh, ma allora sei incontentabile! Da qualche parte bisognerà pure incominciare ad ammodernare le infrastrutture di questo Stato! Ops, scusa caro lettore, non dirò più parolacce. E quel che è Stato è Stato.

Arrivederci al prossimo anno col Nebrodi Art Fest. Ne vedremo ancora delle belle, ci sarà da divertirsi un intero Mondo. Contateci!

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Letteratura e fornelli sono le mie passioni e, fra queste due attività, divido il mio tempo. Non senza fatica! Che la cucina è cura. E amore. Ma vedere il piacere dipinto sui volti dei miei commensali è una moneta molto preziosa. Una volta uno chef disse che chi mangiava le sue pietanze era come se stesse dando un morso alla sua anima, una specie di eucarestia laica. Lo penso anch'io! I miei racconti? Nascono dalla realtà che frequento, dalle piccole grandi storie che ogni famiglia custodisce, gemme preziose che voglio liberare dal buio dell'oblio. Racconto i racconti che mi raccontano, racconto la mia storia. Scrivo ciò che mi ispira. "L'ispirazione è il mio tavolo di lavoro" diceva Baudelaire: a mescolare gli ingredienti poi ci penso io. E' l'arte dell'attesa: in cucina, come per scrivere un testo, non bisogna avere fretta. Ogni elemento ha un suo tempo specifico di reazione, un suo tempo di "riposo" e uno di "lievitazione". Sui fuochi o dentro l'anima.

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