Che cos’è Cantu di notte?
Il Cantu di notti è, appunto, un canto nato da un dolore che non poteva essere “detto”: il 7 aprile del 1988, alle 7.20 del mattino, sulla strada provinciale che congiunge Fiumara di Muro a Campo Calabro, era stato ucciso, a colpi di fucile caricato a pallettoni, Nino Romeo, un ragazzo di ventiquattro anni che faceva il manovale ed era incensurato. Era stato ferito mentre guidava una vecchia cinquecento che stava portando dal meccanico. Poi qualcuno lo aveva finito con un colpo alle spalle.
Nino Romeo era stato mio alunno, per molti anni.
Non era riuscito a prendere il diploma, ma aveva fatto teatro a scuola con il piccolo gruppo di insegnanti che credeva di combattere la mafia tenendo legati a sé i ragazzi più fragili e più esposti. Era emozionato, il giorno della recita, e l’emozione con cui reggeva sulle sue spalle la sua parte aveva commosso tutti. Dopo l’esame di maturità andato male, era stato
richiamato per il servizio militare a Milano e da lì mi scriveva poesie, pensieri, racconti della sua nuova vita, della sua scoperta del teatro (ci andava tutte le volte che poteva). Poi era dovuto tornare al suo paese perché a Milano abitava in una catapecchia carissima (oggi questo destino tocca agli extracomunitari) e il lavoro che faceva (mal pagato e naturalmente al nero) non gli consentiva di vivere in quella città. La sua morte mi aveva messo brutalmente di fronte a tutte le ipocrisie con cui, allora come oggi, si liquidano le morti per mafia dei poveri cristi: si ammazzano fra loro, chissà quanto era implicato, abbiamo fatto per lui quello che potevamo, ci vorrebbero le fabbriche e il lavoro… altrimenti è inevitabile, bisogna fare educazione antimafia, ecc. Io invece maledicevo la scuola che lo aveva espulso perché non era in grado di prepararlo professionalmente (niente attrezzature, niente laboratori, niente attenzione alla relazione fra il mondo a cui Nino apparteneva e il modo in cui venivano trasmesse le discipline) il suo padrone di casa che al nero gli chiedeva una cifra esorbitante, i proclami governativi, le chiacchiere dei partiti, le stupidaggini dei giornali e la mia, di stupidità che non ero stata capace, avendo intuito che si trovava in pericolo, di portarmelo a casa e soprattutto maledicevo la retorica che copre complicità strutturali a cui siamo tanto abituati che ci sguazziamo dentro senza accorgercene affatto.
I canti, invece, soprattutto se nascono come canti liberi dall’incontro del suono delle parole con la ricerca intima di chi canta, se stanno nel cuore di un’antica tradizione, sono un dono potente che non può barare rispetto al dolore e all’amore.
Ogni scrittura ha un peso che trova la sua ragione nell’oscillare tra la bellezza e la giustizia. Com’è avvenuta la ricerca di queste in Canto di notte?
Vi è qualcosa di profondamente etico nella scrittura. L’ho imparato dai miei alunni. Bellezza e giustizia, ma in genere le parole, erano vuote per loro se non andavamo a cercare nel sottosuolo, giù nell’ombra dove abitano e da dove emergono a loro piacimento, sgusciando come bambini dal ventre materno imponderabili, assopite, in attesa del tocco della madre. Bisogna cercare la libertà attraverso la scrittura come se si andasse a pesca in alto mare, fra le onde e i flutti: la parola corre sotto il pelo dell’acqua. Bisogna seguirla non per tirarla fuori dal suo elemento, ma per trasformare in mare la mente perché possa accoglierne l’aleatorietà.
In questo mare la parola guizza, o scivola e incontra il suo suono, quello prima di tutto. Nessuno può ascoltarlo da fuori, è difficile persino da dentro. Se il suono sfugge la parola nasce già morta.
Per dare valore alle parole non serve verniciarle di colori sgargianti, assemblarle in fulminee impressioni, serve la cura, simile a quella delle vecchie zie analfabete che nutrivano la famiglia e si sedevano la sera fra le piante sul balcone, dopo avere levato la foglia secca, il rametto spezzato, dentro la frescura della luce declinante, nel profumo dei gerani.
Cosa il racconto vuole affidare al lettore?
La parte narrativa del Cantu è scritta a più mani così come la musica della parte in versi è frutto del lavoro collettivo di un Laboratorio sul canto libero e l’improvvisazione creativa. Alcune delle persone che facevano parte del gruppo, mano a mano che entravamo nel vivo della ricerca di movimenti e sonorità personali riprendendo i fili della tradizione, hanno scelto di raccontare. Il Canto vero e proprio era, ed è ancora, contatto con il preverbale individuale per scoprire radici collettive ignorate, dimenticate, insospettate. Intorno a questo nucleo prende vita la narrazione. Il desiderio che affidiamo al lettore è che voglia diventare parte del “coro” della memoria.
E cosa invece restituire all’autrice?
Il racconto mi ricorda un modo di vivere e di morire di cui nessuno vuole davvero sapere. Ed io non voglio dimenticare. Allora come oggi ho paura del modo superficiale, retorico, enfatico ed episodico di guardare al sud e al numero morti che non fanno notizia. Mi ricorda che sono madre e che ogni giovane morto lascia dietro di sé dolore e perdita. Questo non può essere indifferente per un territorio. In quanto al Canto, rimetterlo in scena è sempre molto difficile. Mano a mano che passa il tempo aumenta l’assuefazione e la omologazione delle culture, musicali e non. Ogni volta bisogna accettare che il tempo cancella e si fa fatica a scavare.
E alla Storia?
Alla Storia niente, niente, niente.