“Palermo non mi piace, per questo ho imparato ad amarla” (Paolo Borsellino).
Queste parole mi tornano spesso in mente quando mi ritrovo per le vie della città, quando sono costretta a interagire con essa.
Questa città ha una specie di maleficio, una magia nera che attrae e respinge al tempo stesso.
Ho mille motivi per detestarla Palermo ma, come ogni amore vero, è istintivo, sfugge a ogni logica razionale, a ogni calcolo interessato. Ti risucchia e ti sporca, ma davanti al suo incanto decadente rimani senza fiato, riacquistando il candore verginale della bellezza senza contropartita, fine a stessa.
In questi giorni di perdite significative per questa città ho sentito miei alcuni pensieri scritti e sparsi qua è là per la rete.
Pochi giorni fa è mancato Franco Scaldati, il “poeta di strada”, il “poeta con la quinta elementare”, il “De Filippo di Palermo”, il “Pasolini del sud”. Quante definizioni per indicare un uomo grande, un artista eccezionale! Peccato che Palermo non se ne sia accorta, presa a tenaglia fra due fuochi: da una parte emergenze varie, povertà sempre crescenti e proteste più o meno vibranti; dall’altra parte è accerchiata da quella categoria di intellettuali sempre più tronfia e trombona che non fa altro che compiacersi di se stessa, in una continua e meschina masturbazione mentale, esibizionista e sterile. E che sta alla finestra, pronta a sputare sentenze senza muovere un dito. Troppa è la paura di sporcarsi le mani: meglio tenerle in tasca e lasciare che siano altri a usarle al posto nostro. Meglio intervenire bacchettando questo o quel comportamento. Essere sempre pronti alla rissa verbale. Violenti pure con le parole… meglio utilizzare la nostra “cultura” per deridere i subalterni, trattarli con sufficienza, dall’alto della torre del nostro “sapere”.
Poteva, questa categoria di intellettuali, prendere parte al funerale del più semplice dei suoi poeti? No, non poteva. Perché i protagonisti, gli attori dei testi visionari di Scaldati non frequentano i salotti buoni, non li vedi alle prime di spettacoli di avanguardia, non vanno all’happy hours a bere un drink il sabato sera. Non hanno mai letto un libro in vita loro. Proprio no!
Se vuoi sapere chi sono i suoi protagonisti devi spingerti dentro qualche mercato cittadino, nei suoi vicoli, fra i suoi bassi dove la luce del sole arriva solo per pochi minuti. Se arriva. Oppure devi entrare in qualche taverna. Al mattino però, non la sera tardi, quando ogni piazza e ogni vicolo si trasformano in una grande enoteca a cielo aperto finto alternativa. Devi ascoltare i loro discorsi, parlare il loro dialetto, sentire la musica fra le parole stonate e uno stile estraneo a una cultura borghese. Devi sporcati le mani insomma. Ed è scomodo! E’ più facile la derisione o la sufficienza per un congiuntivo sbagliato, pieni come siamo della nostra presunta capacità di esprimerci in un italiano forbito.
La cultura, se non ti serve a provare compassione per chi non ha i tuoi stessi strumenti, semplicemente non è cultura. Non serve a niente. E’ un vuoto esercizio di retorica. Non decolla, non plana, non solleva, non guarisce, non evolve lo spirito.
Per questo al tuo funerale, caro Franco, Palermo non c’era. C’erano le persone che hai incrociato nel tuo lungo (e bellissimo) cammino artistico. Li hai avvicinati con l’umiltà che ti ha sempre contraddistinto, sempre attento a non mortificare la natura, l’essenza delle persone che hanno partecipato ai tuoi laboratori. Ma liberando la poesia che inconsapevolmente era dentro di loro. Con questo ci hai regalato tutta la meravigliosa imperfezione di questa nostra città, la sua asprezza, la sua durezza, la vigliaccheria e la sua poca accoglienza.
Ci hai dato uno schiaffo e una lezione durissima da digerire. Chissà se Palermo lo capirà mai!