Oggi la possibilità che l’Autorità Palestinese chieda un riconoscimento ufficiale a livello internazionale è più che probabile. Forse, più che dovuta. Ma la reazione della Comunità Internazionale qual è?
Il nodo fondamentale della questione è infatti la possibilità che tale richiesta di riconoscimento venga approvata all’Assemblea Generale dell’O.N.U. – probabilmente quella di settembre, nella quale avrà ufficialmente luogo la richiesta palestinese – , ma i leader palestinesi sono essi stessi scettici che la campagna riesca ad ottenere i suoi i frutti, a maggior ragione considerando l’atteso veto in Consiglio di Sicurezza degli Stati Uniti. Tuttavia, ciò non toglie il fatto che la campagna possa essere comunque un incoraggiamento in più per molte nazioni a supportare la richiesta palestinese contro le pretese israeliane. E, nonostante ciò, la gente, i palestinesi, guardano ancora con diffidenza all’iniziativa del proprio governo, temendo innanzitutto che l’approvazione di una determinata risoluzione sacrificherebbe il loro stesso rientro nei territori già occupati da Israele, con l’unico fine di istituire «un’entità virtuale che non avrebbe alcuna influenza sui fatti reali».
Naturalmente le paure del popolo palestinese non possono non essere associate agli attacchi congiunti U.S.A.-Israele degli ultimi due anni – l’assedio “non riconosciuto” di Gaza, rappresentante uno dei soprusi più meschini di questo mondo dalla fine della seconda guerra mondiale, sarà sui libri di storia nel prossimo futuro – e dalle ultime azioni di sabotaggio e di terrorismo di Stato verso il movimento pacifista internazionale attivo nella causa palestinese, il cui giorno più amaro – non soltanto per le perdite, ma anche per il colpo netto alla credibilità del movimento stesso – è stato certamente il 31 maggio 2010, quando l’intervento israeliano sulla principale nave della Freedom Flotilla, la MV Mavi Marmara – intenzionata a forzare il blocco navale per Gaza, ma comunque subendo l’abbordaggio in acque internazionali – , ha provocato – con chiari ed innegabili atti di violenza premeditata da parte degli attivisti, dimostrate dal fatto che a bordo delle altre navi della flotta non si sono verificati incidenti – 9 morti, dozzine di feriti e centinaia di arresti. L’ennesimo trauma per la fiducia dei palestinesi, d’altra parte, è la possibilità di sfidare gli Stati Uniti, da sempre fermi sostenitori della legittimità delle azioni di Israele. Ultimamente, il Presidente Barack Obama ha infatti invitato il governo palestinese ad abbandonare il proposito di presentarsi alle Nazioni Unite, avvertendo l’intenzione statunitense di non consentire lo sviluppo di azioni politiche dal carattere simbolico, miranti esclusivamente alla «delegittimazione dello Stato di Israele». E anche la posizione affermata dal presidente statunitense in colloquio con il premier israeliano Benjamin Netanyahu, nel quale lo Stato di Israele è stato invitato a ridimensionare le proprie pretese alle dinamiche territoriali antecedenti agli eventi bellici del 1967, non hanno comportato una presa di posizione netta contro i crimini perpetuati da Israele nelle terre occupate della Palestina.
Rifiutando ogni azione che comporterebbe una «delegittimazione dello Stato di Israele», in effetti, gli U.S.A. pretendono di fondare la soluzione al conflitto israelo-palestinese su quegli stessi atti di forza che hanno concesso proprio ad una delle due parti di ottenere il proprio territorio nazionale, ponendosi così in una situazione di manifesta ambiguità che cela il costante appoggio al fondamentale alleato israeliano in terra d’Oriente. In un certo senso, sono gli stessi Stati Uniti d’America, custodi della democrazia e del diritto internazionale, che giustificano atti che inevitabilmente sviliscono la forza vincolante del diritto stesso e delle pressioni della Comunità Internazionale.
Seguendo l’analisi di Noam Chomsky, che rileva come la Palestina – già riconosciuta da 107 paesi, 7 facenti parte dell’Unione Europea – sia effettivamente ammessa a tutte le organizzazioni O.N.U. – UNESCO ed OMS escluse – , il naturale sviluppo della situazione dovrebbe essere il suo riconoscimento a livello mondiale, e nei confini del 1967, comprendenti Cisgiordania, Striscia di Gaza e Gerusalemme Est – oltre che le alture del Golan, strappate allo Stato siriano durante la guerra dei Sei Giorni, e nelle quali la costruzione di insediamenti israeliani e di una vera e propria entità amministrativa è stata condannata dalla risoluzione 497 del Consiglio di Sicurezza dell’O.N.U., che ha dichiarato la giurisdizione e l’amministrazione israeliane «nulle e prive di ogni rilevanza giuridica internazionale». Ma il riconoscimento non arriva, e le responsabilità sono ancora una volta abbastanza chiare. Soltanto il mese scorso, infatti, il Senato statunitense ha approvato un atto di condanna verso l’iniziativa dell’Autorità Palestinese nei confronti dell’O.N.U., minacciando il blocco degli aiuti allo stesso governo del popolo palestinese, e l’ambasciatore americano alla Nazioni Unite, Susan Rice – secondo il Daily Telegraph – , ha avvertito «che non c’è maggior minaccia in confronto ai fondi USA all’ONU che la prospettiva che il riconoscimento dello Stato di Palestina sia adottato dagli stati membri». D’altra parte tale responsabilità non è stata mai rinnegata dagli Stati Uniti d’America, come dimostra il sostegno che, dal 1990 – e con un nuovo affondo nel 2010 – la Repubblica Federale ha assicurato ad Israele nelle crudeltà perpetrate a Gaza, la cui separazione dalla Cisgiordania è effettivamente sancita dagli Accordi di Oslo del 1993 firmati da Yasser Arafat e Shimon Peres sotto la mediazione di Bill Clinton. Evidentemente un accordo separato per escludere le prassi di diritto internazionale dalla gestione del problema. Un problema così semplice che, con molta probabilità – e con molta amarezza – , non sarà mai risolto.