Palestina, la politica di Israele

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Tiene banco in questi mesi una questione che potrebbe sconvolgere l’assetto politico mondiale, rispetto a quello individuato in Occidente come il fronte di maggiore “crisi” per la stabilità e l’equilibrio internazionale, il Medio Oriente. È inevitabile che una soluzione ed una politica di distensione rispetto alla nuova guerra fredda che va rimodellandosi attorno U.S.A. ed Iran – seppur in un panorama infinitamente più incerto e frastagliato, con tante posizioni grigie – passi per la Terra Santa, per la risoluzione del dramma palestinese. Tutto dipende dall’atteggiamento occidentale nei confronti dalla proposta dell’Autorità Palestinese, che – probabilmente a settembre – proporrà di fronte l’Assemblea delle Nazioni Unite una risoluzione vincolante capace di conferire esistenza piena allo Stato palestinese ed al suo governo. Riconoscimento di esistenza atteso da sessant’anni.
La campagna attivata dall’Autorità Nazionale Palestinese, in ogni caso, non poteva sperare nell’inerzia dell’altro fronte, quello israeliano, che si è prontamente attivato – come riportato da Haaretz, principale quotidiano israeliano – in una contro-campagna che vede in prima fila il Ministero degli Esteri presieduto da Avigdor Lieberman, volta a rafforzare i contatti – e le pressioni – israeliane a livello internazionale. Ma anche Ehud Barak, ministro della Difesa di Israele – come affermato sul sito web Al-Jazeera – , in un cablogramma diretto allo stesso Ministero degli Esteri, avrebbe invitato il collega di gabinetto ad istruire ambasciatori e funzionari affinché descrivano l’azione palestinese come «un processo che erode la legittimità dello Stato di Israele». Questo perché la classe dirigente israeliana lega indissolubilmente la questione della legalità delle azioni israeliane alla legittimità stessa del proprio Stato, probabilmente a ragione, considerando la natura e l’origine degli insediamenti dei coloni, e una realtà di occupazione del suolo palestinese che ha portato alla demolizione di più di 450 villaggi associati alla creazione di Israele.
Barak ha inoltre sostenuto che la mossa palestinese di ottenere il riconoscimento delle Nazioni Unite di uno Stato Palestinese indipendente è un tentativo «di raggiungere i loro scopi in una maniera altra rispetto ai negoziati con Israele», dimostrazione della posizione di forza incontrastata dalla quale lo Stato ebraico vuole continuare a condurre finte trattative miranti esclusivamente al rafforzamento dei propri possedimenti, e anche della volontà di mantenere la “questione palestinese” circoscritta ad un ambito territoriale interno, e perciò esclusa dalla possibilità che il governo palestinese possa far valere per la sua risoluzione convezioni internazionali di diritto, così come alcuni essenziali riferimenti alla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948. L’élite israeliana è oggi in fermento, tanto che si teme un possibile «processo di sudafricanizzazione», come riferisce Dan Gillerman, ex ambasciatore israeliano presso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in riferimento alle possibili sanzioni internazionali che potrebbero derivare dal riconoscimento dello Stato palestinese.
Le trattative e le strategie palestinesi vanno avanti, in attesa degli eventi di settembre. Intanto Gerusalemme trema, e Ramallah piange e Gaza City muore. Nella Striscia piovono bombe e non arrivano alimenti, le condizioni igieniche e sanitarie sono disperate, tanto da far schierare anche la Croce Rossa Internazionale contro il muro costruitogli intorno da Israele, il 95% dell’acqua presente non è potabile, in una condizione in cui il 40% delle malattie proviene proprio dall’utilizzo dell’acqua, e nella quale l’80% della popolazione dipende esclusivamente dagli aiuti che arrivano dall’estero, in un contesto di povertà che si è triplicato dall’inizio del blocco israelo-statunitense. A chiunque voglia dare un giudizio sulla legittimità della difesa da parte israeliana della propria sicurezza nazionale, poi, come mezzo di giustificazione dell’occupazione militare dei territori palestinesi e dei blocchi militari a Gaza, basta dare un’occhiata ai dati relativi alle vittime israeliane degli attacchi terroristici di Hamas e delle altre organizzazioni fondamentaliste filo-palestinesi su tutto il territorio nazionale di Israele, che fa 7 milioni e 746mila persone, e quelle palestinesi delle azioni – se non terroristiche, semi-terroristiche – dell’esercito israeliano soltanto a Gaza, che di abitanti ne ha 449mila. Il conto è – prendendo a riferimento esclusivamente i dati 2008 – 20 contro 868. 1 morto su 517 persone a Gaza, 1 su 387.300 in Israele. Poi si possono giustificare anche l’Olocausto e gli eccidi sovietici, ma questa è un’altra storia.

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