Il 41 bis dell’ordinamento penitenziario ed il carcere ostativo (il carcere duro senza permessi e concessioni) sono l’unico modo per stroncare definitivamente la mafia ed il malaffare. I boss mafiosi devono marcire in galera e con loro tutti i loro servi. O forse no? Beh oggi si torna a discutere di questo tema, o forse non se ne è mai discusso approfonditamente. Potere al Popolo ha avuto il coraggio e pure la sfacciataggine di creare scandalo inserendo l’abolizione del Carcere Ostativo come punto programmatico per la sua campagna per le prossime Politiche 2018. Boss mafiosi continuano anche nel carcere a ricoprire ruoli nella malavita. Altri maledicono lo Stato e la galera e non cambieranno mai. O forse potrebbero e non è loro permesso? Lo Stato nelle sue leggi definisce la pena non soltanto punitiva ma anche rieducativa, ma oggi è davvero così? L’eccezione alla regola, o forse la prova che si può cambiare davvero è Carmelo Musumeci.
Chi scrive ha poche risposte, ma ha fatto qualche domanda a Musumeci, perché ci aiuti a chiarirci le idee. Nato ad Aci Sant’Antonio, provincia di Catania, dopo un’infanzia difficile si trasferisce a La Spezia con la madre. Durante l’infanzia il padre è lontano per lavoro e la nonna gli insegna a rubare nei supermercati e ad aver diffidenza verso gli “sbirri”. Racconta che in quel mondo non vedeva amore, solo la fame. La sua famiglia non era agiata. Entra in collegio ma una sera fugge via. Dopo essere stato picchiato dal prete del collegio e lasciato senza cibo decide che un giorno si vendicherà del mondo. Da grande diventerà il temutissimo boss della Versilia.
Una retata nel 1991 pone fine alla sua carriera criminale. Ma è lì che inizia un’altra storia. Èil 21 Ottobre di quell’anno, Musumeci entra in carcere e il carcere, come lo definisce lui, l’Assassino dei sogni, lo accompagnerà per tutta la sua vita, forse fino alla morte. Dentro si trova ad affrontare il silenzio e la solitudine dell’ergastolo ostativo, che non da sconti, permessi, buone uscite … Solo la possibilità di uscire “buttandosi pentito” e mettendo un altro in carcere. Non si esce per i propri meriti, per la buona condotta o per aver dimostrato un cambiamento. In carcere scopre che l’unica via d’uscita, l’unica cosa che lo tiene in vita, è leggere. Aveva la licenza elementare quando è entrato. Adesso ha tre lauree (una in Giurisprudenza), ed è diventato uno scrittore. Incontra Don Benzi e Nadia Bizzotto e cambia vita.
Cosa ti ha fatto capire che leggere e studiare ti avrebbe salvato dalla solitudine dell’ergastolo ostativo?
Leggendo un libro su Don Milani mi aveva colpito questa frase:” Siete proprio come vi vogliono i padroni, servi, chiusi e sottomessi. Se il padrone conosce 1000 parole e tu ne conosci solo 100 sei destinato ad essere sempre servo”. E ho iniziato a leggere a studiare e non ho smesso più. Credo che in carcere quello che manca più di tutto è la mancanza di cultura. Per questo quasi sempre il detenuto esce più prigioniero di quando è entrato.
Spesso si parla di Giustizia riabilitativa e tu potresti essere un esempio di percorso di riparazione. Oggi pensi di aver “riparato” ai tuoi errori, oppure pensi di dover fare ancora qualcosa?
Credo che per certi gravi reati non esista un percorso di riparazione, ma si dovrebbe dare a tutti i prigionieri la possibilità di rimediare, ovviamente parzialmente, al male fatto in passato facendo del bene nel presente.
Questa è una domanda un po’ scomoda. Perché non hai collaborato con la giustizia? Hai avuto timore per la tua famiglia? Chi riesce a vedere nei pentiti e nei collaboratori di oggi il pentimento dell’Innominato del Manzoni?
Pentimento che fuoriesce dalla tristezza e dall’abiura morale. Il pentimento che nasce da un sofferto esame interiore. L’urlo della coscienza! Il graffio del rimorso! L’umiltà del peccatore! Tracce di riscatto morale! La testa in giù per il mal prodotto. Dov’è tutto ciò nei pentiti di oggi? Non sempre quando un prigioniero non diventa “collaboratore di giustizia” lo fa per omertà, spesso non fa la spia per ignoranza, per paura, per non sconvolgere la vita ai propri figli (dovrebbero cambiare nome, espatriare, nascondersi) perché è innocente o semplicemente perché, giusta o sbagliata che sia, vuole scontare la sua pena senza usare la giustizia per uscire dal carcere, senza mettere qualcun altro al suo posto.
Cosa pensa Carmelo Musumeci oggi della mafia? La cultura può essere un’arma contro la mafia?
Premetto che condanno la mafia, sia quella che spara, sia quella politica, giudiziaria, religiosa, finanziaria, mediatica e lobbistica che comanda e che in carcere non ci va mai. Premetto che va tutta la mia sincera solidarietà a tutte le vittime innocenti della mafia. Detto questo, penso che la mafia esisterà fin quando lo Stato la farà esistere. Penso anche che lo Stato conosce bene la mafia, la comprende e la usa e che in carcere ci sono solo gli esecutori, i mandanti politici e i notabili sono tutti ai loro posti e alcuni di loro sono passati all’antimafia. È illogico e irrazionale pensare che la mafia sia solo quella contadina, quasi analfabeta che si trova in carcere sottoposta al regime di tortura del 4l bis da tanti anni. Penso che il Sud è sempre stato un serbatoio di voti di chi governa perché chi vince le elezioni in Sicilia governa l’Italia, per questo l’ex partito comunista non è mai andato al potere. Credo che molti ergastolani sono pure loro vittime della mafia perché alcuni di loro per sopravvivere sono stati costrette a diventare mafiosi e che molti mafiosi sono nati mafiosi a causa di uno Stato assente, fuori legge, perché la legalità prima di pretenderla va donata.
Cosa può fare la società dei buoni e dei benpensanti per aiutare un ex mafioso a reinserirsi?
Dargli speranza, fiducia e affetto sociale e soprattutto non maledirlo e condannarlo ad essere cattivo e colpevole per sempre. Credo che il perdono ti faccia amare il mondo e che la vendetta te lo faccia odiare. Giustizia dovrebbe significare verità e non vendetta. Se ad alcuni ergastolani venisse data una possibilità, una sola, di rifarsi una vita penso che smetterebbero di essere criminali, ma in questo caso la mafia dei colletti bianchi perderebbe il suo esercito e lo Stato perderebbe il nemico interno su cui poter scaricare tutte le colpe. Penso pure che sia quasi impossibile rieducare una persona senza amarla, perdonarla e senza dirle quando finirà la sua pena. Tenere un uomo vivo dentro quattro mura, anche quando non è più necessario, senza neppure la compassione di ucciderlo è un assassinio peggiore di quello per cui alcuni di noi sono stati condannati.
Chi è oggi Carmelo Musumeci?
Quello che non ho mai potuto o voluto essere.
Forse quel ragazzo che rapinò una bisca, se avesse avuto altre opportunità e un po’ d’amore in più, sarebbe diventato lo stesso il boss della Versilia?
Potrei giustificarmi che sono stato quello che sono potuto essere e non quello che avrei voluto essere. Potrei dare la colpa delle mie scelte criminali alla mia infanzia infelice o alle botte che ho preso prima in collegio dalle suore e dai preti e subito dopo nelle carceri minorili (a soli quindici anni sono stato legato al letto di contenzione per sette giorni). Io però preferisco non darmi nessuna attenuante perché come dico spesso: “sono nato già colpevole, poi io ci ho messo del mio a diventarlo”.
Perché noi “buoni” dovremmo accettare l’abolizione del 41 bis? Esiste un’alternativa?
In pochi accetterebbero di rischiare di mettere in libertà dei mafiosi con rischio di recidiva.
Il rischio zero non esiste per nessuna persona, perché siamo umani. In noi c’è il bene e il male e a volte sta anche alla società rischiare per tirarci fuori di più il bene. Io non credo che la lotta alla mafia si debba fare con il carcere duro e l’infierire su quei settecento detenuti che sono in 41 bis da decenni, e di conseguenza sulle loro famiglie, sui loro figli. Inoltre se quei figli vedono solo la faccia dura delle Istituzioni credo che finiranno per odiarle, e più d’uno rischierà di fare la fine di suo padre. E non si uscirà mai da quella pericolosa “subcultura” per cui in intere regioni del nostro Paese le Istituzioni sono il nemico.
Cosa significa il carcere per Carmelo Musumeci? Cosa la semilibertà?
Molti pensano che il carcere sia la medicina, ma non è vero, piuttosto è una malattia della società perché è la gabbia dell’odio. In luoghi come questi non si migliora, ma si peggiora. Sarà perché continuando a sentirci dire che siamo irrecuperabili, che siamo dei mostri, che siamo cattivi, ci crediamo e cerchiamo di esserlo davvero. Il carcere dovrebbe non solo fermare i criminali ma dovrebbe anche servire a recuperarli. Il regime di semilibertà mi sta dando la possibilità di iniziare di nuovo a vivere. Da un anno e due mesi passo le notti in carcere ed esco tutte le mattine per recarmi in una struttura della Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da Don Oreste Benzi, dove presto servizio volontario. In questo modo sono felice perché la mia pena ha finalmente ha iniziato ad avere un senso e fa bene a me stesso e alla società. La pena, qualsiasi pena, dovrebbe servirti a guarire e a farti bene, invece nella maggioranza dei casi nell’inferno delle nostre “Patrie Galere” fa solo male.
Come si svolge la tua giornata tipo?
In questo anno e due mesi in regime di semilibertà facendo il volontario e aiutando i bambini e adulti disabili nella comunità della Casa Famiglia Giovanni XXIII sto imparando molte cose e mi sento molto più umano di quando ero chiuso in cella condannato a essere cattivo e colpevole per sempre. La giornata tipo è molto condizionata dagli orari di uscita e entrata dal carcere e dagli orari dei vari autobus e treni da prendere per fare avanti ed indietro da Perugia a Bevagna.
Cosa è per te la Comunità di Don Benzi e la sua figura?
Don Oreste è l’uomo più buono che abbia conosciuto, quando venne nel carcere di Spoleto non esitò un attimo a schierasti dalla parte dei più cattivi (prima di lui lo aveva fatto solo Gesù). E a dieci anni della sua morte non nascondo che spesso mi sono chiesto perché se ne sia andato così presto in Cielo. Non poteva rimanere ancora un po’ su questa terra per darci una mano ad abolire la “Pena di Morte Viva”? La Comunità Papa Giovanni XXIII è la mia seconda famiglia.
Che effetto fa essere il mandante dell’omicidio di un uomo?
La mia storia giudiziaria è semplice; lo dice la motivazione della Corte d’Assise che mi ha condannato alla pena dell’ergastolo e che, nonostante la grande distanza fra verità vera e processuale, ha stabilito: “In un regolamento di conti il Musumeci Carmelo è stato colpito da sei pallottole a bruciapelo, salvatosi per miracolo, in seguito si è vendicato”. In molti casi come il mio non ci sono né vittime, né carnefici, né innocenti, né colpevoli, perché sia i vivi che i morti si sentivano in guerra. E quando ci si sente in guerra, al processo non ci si difende, si sta zitti e ci si affida alla Dea bendata. Non si maledice la buona o la cattiva sorte, anche se si pensa spesso che i morti siano stati più fortunati dei vivi se i vivi sono stati condannati all’ergastolo. Tanti ci considerano mostri. E probabilmente abbiamo fatto cose da mostri. Ma da criminale vivi completamente immerso in quel tuo mondo. Io mi sentivo in guerra. Non avevo rimorsi. Viaggiavo armato. Se avevamo un conflitto a fuoco e vincevamo, con i miei uomini si andava a festeggiare. Perché eravamo ancora vivi.
Che rapporto hai oggi con la famiglia d’origine e tua madre?
Mia madre e mio padre sono mancati e con la mia vecchia famiglia d’origine non ho più nessun rapporto.
Come vivi il rapporto con la tua compagna e i tuoi figli? Cosa hai insegnato loro.
Molti non lo sanno, ma forse la cosa più terribile del carcere è accorgersi che si soffre per nulla. Ed è terribile comprendere che il nostro dolore non fa bene a nessuno, neppure alle vittime dei nostri reati. Spesso ho persino pensato che il carcere faccia più male alla società che agli stessi prigionieri perché, nella maggioranza dei casi, la prigione produce e modella nuovi criminali. Se a me questo non è accaduto è solo grazie all’amore della mia famiglia e di una parte della società. Senza la mia compagna e i miei figli non ce l’avrei mai fatta e probabilmente non sarei ancora in questo mondo. Non ho insegnato nulla ai miei figli ma loro hanno insegnato molto a me.
Come vedi il tuo futuro? Un messaggio per i giovani?
Incerto. Qualunque persona per vivere ha bisogno di sperare e di sognare. Ed è difficile farlo senza alcuna certezza e con un fine pena nel 9.999, ma sono già felice di essere in regime di semilibertà. Nel 1985 ad una domanda di uno studente che chiedeva quali consigli egli potesse dare ai giovani, Ludovico Geymonat rispose “Contestate e create”. Ecco, questo consiglio ai giovani. Penso pure che anche i detenuti, per migliorare se stessi e il luogo in cui vivono, devono fare la stessa cosa. Invece per anni e anni molti detenuti vivono senza accorgersene, senza cercare di capire… probabilmente questo accade anche a molte persone in libertà, ma è un peccato che in prigione, dove si ha più tempo per pensare, pochi lo facciano…
Dici spesso che Don Benzi ti ha liberato. Ti ha anche avvicinato alla fede?
Continuo a credere di non credere (e forse per questo sono uno dei pochi credenti) ma Don Oreste ha fatto molto di più che liberarmi o avvicinarmi alla fede: mi ha aiutato a sentirmi umano e a credere ancora nell’uomo.
Hai dichiarato di voler votare recentemente Potere al Popolo che appoggia la tua stessa battaglia per l’abolizione dell’ergastolo ostativo. Oggi ti senti di “Sinistra”?
Mi hanno condannato per mafia, ma sono nato come ribelle sociale (anarchico) poi purtroppo sono diventato qualcun altro.
Ho letto che stai preparando uno sciopero della fame per marzo, parlaci di questa iniziativa.
L’associazione Liberarsi ha sempre sostenuto la campagna contro il carcere a vita e per questo sta organizzando il secondo giorno di digiuno nazionale venerdì 30 marzo 2018 contro la pena dell’ergastolo.
Cercheremo di coinvolgere anche questa volta il massimo delle persone interessate: le associazioni di volontariato, i nuovi parlamentari, i centri sociali, esponenti della magistratura, dell’università, delle camere penali, uomini e donne di tutte le chiese, fedi religiose e movimenti spirituali, intellettuali, e personaggi del mondo dello spettacolo e dell’informazione.
Chiunque può aderire nel sito dell’Associazione Liberarsi:
Michele Bruno