La manifestazione “Se non ora, quando” promossa il 13 Febbraio, a livello nazionale mediante un appello, vede tra le prime firmatarie il segretario della CGIL, Susanna Camusso, e numerose personalità del mondo della cultura, della politica, dello spettacolo e dell’imprenditoria italiana. L’iniziativa è riuscita a portare nelle maggiori piazze migliaia di cittadine e di cittadini, ostinati a voler difendere la dignità delle donne nel nostro Paese.
L’esperienza dimostra che in tutta Italia è vivo e diffuso un sentimento di indignazione e di rabbia per le vicende dell’inchiesta di Milano, che vede il Presidente del Consiglio protagonista di un intreccio tra potere, denaro e sesso. Questo concetto è ben espresso in un punto dell’appello alla mobilitazione delle donne: “… Una cultura diffusa propone alle giovani generazioni di raggiungere mete scintillanti e facili guadagni offrendo bellezza e intelligenza al potente di turno, disposto a sua volta a scambiarle con risorse e ruoli pubblici …”
Certamente l’idea che la donna di oggi non sia più quella di ieri è abbastanza diffusa, perché durante il XX secolo assistiamo ad una fortissima accelerazione dello sviluppo dell’emancipazione delle donne.
La prima guerra mondiale impose un netto cambiamento nella società: un numero crescente di donne entrò nel mercato del lavoro al posto degli uomini inviati al fronte, con ruoli non sussidiari ma indispensabili. Si trattò però di un cambiamento parziale e provvisorio, perché queste donne erano discriminate sul piano salariale e furono licenziate appena terminata la guerra.
La fine del conflitto vide il riaffermarsi di ideologie maschiliste, militariste, intolleranti e violente. Basti pensare all’esaltazione che il movimento del Futurismo fece della guerra, dello “schiaffo e del pugno” e al suo proclamato odio per il “femminismo”. Anche il fascismo fu permeato da un ostentato e intollerante maschilismo, cioè dall’arrogante e aggressiva ostentazione di caratteristiche virili, soprattutto la presenza fisica e sessuale, accompagnata dal disprezzo e dalla sottomissione di chiunque non si adattasse a questo modello, e quindi in primo luogo le donne. Il fascismo affermò una visione della donna come individuo subordinato all’uomo e destinato a servirlo, in qualità di moglie e di madre, ma anche sul posto di lavoro e in ogni ambito della società. Questo scopo perseguì costantemente, oltre che attraverso la propaganda, limitando e svilendo l’istruzione femminile. L’asservimento delle donne era talmente connaturato al fascismo che battersi per l’ emancipazione femminile era considerato di fatto un gesto eversivo dell’ordine costituito. Il fascismo più che promuovere l’ingresso delle donne nella vita pubblica si proponeva l’obiettivo del controllo totalitario sulla popolazione femminile.
L’effettiva parità giuridica tra uomo e donna, nel nostro Paese, è una conquista passata attraverso due tappe fondamentali: la prima costituita dall’art. 3 della nostra Costituzione repubblicana (Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso …), insieme alla conquista del suffragio universale; la seconda tappa è costituita dal nuovo diritto di famiglia che elimina ogni gerarchia e ogni diritto di superiorità dell’uomo anche all’interno della famiglia. Altre tappe importanti sono: la legge del 1963 che apre alle donne l’accesso a tutte le professioni, anche alla magistratura; la legge del 1970 che rende legalmente possibile il divorzio (confermata dal referendum del 1974); le diverse leggi che dal 1971 al 1977, richiamandosi all’art. 37 della Costituzione, normalizzano la tutela della maternità: quella del 1978 che permette, in particolari circostanze, di interrompere volontariamente la gravidanza nelle strutture sanitarie pubbliche (confermata dal referendum del 1981); quella del 1991 che individua ambiti e strumenti per fornire “pari opportunità” a tutti i cittadini; quella del 1996 che definisce la violenza sessuale un reato contro la persona e inasprisce le pene per questo reato.
Nonostante il raggiungimento della quasi totale parità giuridica, la condizione della donna è ancora ben lontana nella realtà quotidiana dalla piena emancipazione, anche nei paesi più “democratici”. Lo conferma una serie di dati: le donne continuano ad essere drammaticamente vittime della sopraffazione fisica; le donne detengono un potere decisionale economico e politico inadeguato, nonostante il numero di diplomate e laureate abbia superato quello maschile in molti paesi pochissime donne hanno posizioni lavorative dirigenziali e di prestigio; inoltre le donne elette nelle assemblee rappresentative dei vari paesi sono pochissime. La situazione complessiva va migliorando, ma il cambiamento è reso lento e difficile perché il principale ostacolo alla piena parità è posto da una serie di modelli e di convenzioni culturali che le donne stesse hanno introiettato tanto quanto gli uomini, e ne impediscono il pieno sviluppo. A determinare questo un ruolo importante è stato dato dalla nascita di una serie di professioni in cui la bellezza fisica è valorizzata a fini economici: in particolare la professione di indossatrice e di modella, ma anche di annunciatrice televisiva, di valletta, di velina, di protagonista dei reality; la valorizzazione dei canoni di bellezza fisica si sposano a una interpretazione “maschile” del desiderio, inteso come motore primario dei comportamenti e dei ruoli: nasce così la pubblicità orientata secondo il richiamo della seduzione, che condiziona i consumi con messaggi potenti. Tutto ciò è drammaticamente precipitato nel degrado dello spettacolo offerto dal Presidente del Consiglio, che ha contribuito alla mercificazione del corpo delle donne offendendone la loro dignità.
Messina si sveglia per dare il suo contributo alle voci di protesta nate in tutta Italia. Circa 1500 cittadine e cittadini si sono ritrovati a Piazza Cairoli, nel cuore della città, per urlare basta: basta al degrado della politica e della cultura del nostro Paese consapevoli del fatto che è necessario conoscere la storia del cammino verso l’emancipazione e non dare molti diritti per scontato. La paura è che le conquiste realizzate possano andare perdute. Non possiamo permettere che tanto lavoro, tante difficilissime e civilissime lotte, tante mediazioni, tante felici intuizioni vadano sprecati. Non possiamo e non dobbiamo rimanere inattivi nei confronti di quel progetto di vita disegnato, dalle madri e dai padri della nostra Costituzione, non solo per i contemporanei ma soprattutto per le future generazioni, per quei giovani ai quali le “nostre donne” dedicarono la loro attenzione.
“Ci sono cose che si chiedono e cose che s’impongono … Noi non chiediamo che ci diano libertà e rispetto. La nostra libertà e dignità è qualcosa che imporremo, le riconoscano o no i compagni o il governo”. Donne per l’autodeterminazione e Campagna di Ya Basta
Elena Castano