Sicilia, Pizzo e “sicilianità”: dai territori collusi all’incognita “salvezza”

La storia del fenomeno mafioso in Sicilia è una storia fatta di stratificazioni di interessi, con mappature al limite del dettaglio dei territori in cui si esercita il controllo economico e sociale. Lo stragismo e le vendette tra cosche sono solo parte di un vissuto storico, che fonda le proprie radici direttamente nella gestione delle risorse economiche e nell’investimento del maltolto in nuove operazioni finanziarie, sempre più sofisticate.

La Sicilia è quindi, luogo altamente significativo per quanti hanno scelto di analizzare scientificamente il fenomeno della criminalità organizzata e l’effetto socio-economico che tutto questo produce sui territori. La moderna letteratura scientifica economica ad orientamento relazionale evidenzia il fatto, che gli esiti di uno sviluppo economico sostenibile, oltre che ad altre importanti variabili, sono significativamente legati alla qualità delle relazioni interpersonali (Bruni, 2006; Sacco & Zamagni, 2006). Una comunità che interagisce bene, pare di capire, produce il proprio bene e lo rende accessibile a tutti. Ma quando il bene di alcuni è frutto della privazione dell’altro, tutto questo si traduce nella mortificazione delle risorse di un’intera comunità.

Sicilia, luogo del paradosso e della complessità. Luogo dalla sociologia pirandelliana, scenario di lotte intestine tra conquista di libertà e carica criminale insita in un popolo irredento. Comunità di uomini o incastro di fazzoletti di terra affini, anonimi, imbastiti da una specificità etnoantropologica che i più edotti chiamano sicilianità? Di questo assemblato quale ruolo attribuire al vissuto mafioso? Possiamo riconoscergli solo un frammento del tutto e non ammettere che forse la mafia è parte integrante, oscura, generata dalla stessa nostra cultura?

Un passo indietro! Sul piano storico, la Sicilia è stata terra per eccellenza di quelle politiche del tornaconto economico e dell’accumulo di potere, le cui fortune sono state dettate dalla spinta alla mercificazione dell’Altro e all’individualismo esasperato ed esasperante che nell’Isola ha assunto connotati fisionomici ambigui che necessitano di significato ulteriore, ancor più perché ad oggi non paiono risolti i principali nodi problematici delle politiche avviate sul territorio che non si sa perché, continuano a generare solo clientele.

La stagione delle collusione tra società e malaffare conclusasi con le stragi del 1992, e il silenzio calato all’indomani dello straordinario movimento della società civile in soccorso delle Istituzioni, ha ceduto il passo alla connivenza dei territori con Cosa Nostra, quest’ultima non più legata a partiti da cui pretendere la tutela dei propri interessi ma elemento che gestisce direttamente potere inibitorio nelle politiche attive dei territori offrendosi quale soggetto dinamico nell’economia glocale.

Dire che il blocco dello sviluppo in Sicilia è accresciuto dalla presenza della cosiddetta “cultura mafiosa” è poco. Con “cultura mafiosa” Antonino Giorgi, psicologo clinico dell’Università di Palermo, intende qualcosa assai diffusa, legata alla negazione delle regole sociali e amica invece delle regole private e familistiche. Ciò non necessariamente equivale a criminalità e delinquenza e, tuttavia, sembra orientare molti comportamenti personali e collettivi. Cosa Nostra, in questo senso, trova le sue radici nella strumentalizzazione di alcune specifiche dimensioni psico-antropologiche e culturali siciliane che la costruirebbero e la sosterrebbero, dotandola di una sua precisa unicità. A questo punto, lo stesso Giorgi sottolinea come occorre chiarire, che sono i mafiosi che assomigliano ai siciliani, è la “cultura mafiosa” che ha preso spunto da quella siciliana e non viceversa: Cosa Nostra ha di fatto estremizzato, distorto ed utilizzato per meri scopi criminali i valori tradizionali della cultura siciliana, che di per sé, non sono certo negativi.

Il fenomeno del racket, meglio noto come “pizzo”, è un tipico esempio di blocco dello sviluppo. Esso consiste nella richiesta, fatta da una cosca mafiosa ad un operatore economico, di pagare periodicamente una somma prestabilita al fine di evitare l’esercizio di azioni violente ed intimidatorie nei confronti della sua persona, della sua famiglia e della sua attività imprenditoriale. La situazione ha del paradossale! Infatti è come se un assicuratore chiedesse di sottoscrivere una polizza contro la possibilità di subire dei danni che è esso stesso a poter cagionare. Le organizzazioni mafiose si comportano anche da agenzie specializzate in reclutamento fondi applicando un principio che si può definire della proporzionalità: maggiori sono gli introiti di un operatore economico, maggiore sarà la somma che gli verrà chiesto di pagare. Identico principio viene applicato rispetto all’esercizio della minaccia, elemento indispensabile dell’attività estorsiva.

A questo punto, siamo convinti che il malavitoso porti ancora la “cuoppula” e predilige quei piccoli centri dove si fa chiamare Stidda?

La globalizzazione ha costretto l’Azienda Mafia ad attrezzarsi e di contro a scegliere canali diversi per ingerire nelle scelte importanti di territori che poco hanno a che vedere con il colore della calce rarefatta dei casolari dell’agrigentino del secondo dopoguerra. Il colore degli affari è sempre il verde, così come il “verde” delle distese padane verrebbe da dire.

La fenomenologia del pizzo sul piano operativo, permette alle cosche non solo di controllare il territorio e di infiltrarsi, inquinandolo, nel tessuto economico locale, incassando denaro contante con il quale mantenere le famiglie dei loro affiliati reclusi in carcere ma mette alla prova giovani ragazzi per valutare una loro possibile affiliazione nell’organizzazione criminale ovvero per promuoverli in una posizione più elevata della gerarchia criminale e quindi di rigenerarsi.

Sino a qualche tempo fa, seguendo la strategia di inabissamento promossa da Bernardo Provenzano, un messaggio che Cosa Nostra siciliana inviava a coloro che dovevano pagare il “pizzo” era quello di mettere della colla nelle saracinesche delle serrande dei negozi, di imporre l’acquisto di certe forniture di prodotti da ditte legate ai gruppi criminali o di assumere persone segnalate da questi ultimi.

Uno dei punti di forza di Cosa Nostra, dunque, è senza dubbio costituito dalla capacità di ottenere cooperazione con la macchina amministrativa, di creare particolari reti di relazioni con il mondo della politica, dell’imprenditorialità, della sanità, con il sociale siciliano e non in genere, di instaurare scambi e incentivare obblighi e favori con la complicità dei territori e delle amministrazioni conniventi. Nei territori in cui Cosa Nostra è fortemente radicata, infatti, il capitale umano, produttivo e collettivo, è inespresso, inibito, il legame fiduciario è inconsistente, e ciò toglie ogni possibilità di attivare adeguati processi di sviluppo. In sostanza, la relazione “mafiosa” non è assolutamente un bene relazionale, e non è “intenzionata” ad esserlo, proprio perché non riconosce l’Altro come soggettività. Non riconosce le Istituzioni come presidio del bene comune, non riconosce il diritto alla conoscenza e la dignità del lavoro della gente quale contributo all’economia nazionale, non riconosce, infine, la possibilità che un territorio possa esprimere le proprie potenzialità.

Negli ultimi anni, l’attenzione nei confronti del fenomeno mafioso è indubbiamente aumentata. Il racket è un fenomeno presente soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno caratterizzate storicamente dalla presenza mafiosa. Da queste terre, tuttavia, nei primi anni novanta del secolo scorso è nata anche la ribellione verso l’arroganza e la violenza mafiose da parte dei commercianti, riunitisi in associazioni, come a Capo d’Orlando (Me), al fine di tutelare la loro sicurezza e di incoraggiare alla denuncia. Dopo la stagione del collateralismo tra la politica e la mafia, si sono moltiplicate, ad esempio, le iniziative della società civile, realizzate in particolare nel campo dell’educazione alla legalità e orientate a far conoscere le mafie e a sviluppare la sensibilità e l’impegno delle nuove generazioni sul fronte dell’antimafia seguite anche da iniziative del mondo produttivo siciliano, sponsorizzate in primis dalla nuova gestione di Confindustria Sicilia, incarnata dal Presidente Ivan Lo Bello ma soprattutto da liberi produttori che della legalità ne hanno fatto una questione di qualità per lo sviluppo reale ed ecosostenibile del territorio.

Di grande importanza anche, l’approvazione in questi anni all’Assemblea regionale siciliana di importanti provvedimenti come la Legge Regionale n.15 del 20 novembre 2008 circa “Misure di contrasto alla criminalità organizzata” approvata all’unanimità, che rende automatica ed obbligatoria la costituzione di parte civile della Regione nei processi di mafia per fatti verificatisi sul proprio territorio; l’istituzione dell’Ufficio per la Legalità la cui direzione è stata affidata ad Emanuela Giuliano, figlia di Boris, assassinato dalla mafia nel 1979; la definizione anche di un Protocollo Legalità per le risorse rinnovabili per imprese, laddove è pregnante l’interesse mafioso per la gestione delle risorse; il codice etico per il contrasto dei fenomeni di illegalità e contro la penetrazione mafiosa nella pubblica amministrazione, alla cui redazione è stato chiamato, all’inizio della presente legislatura, l’ex procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna; la Riforma dei Dipartimenti regionali e la Disciplina dell’impiego presso l’amministrazione regionale portati avanti dall’ex magistrato ed Assessore Regionale Caterina Chinnici.

Questa maggiore attenzione, si rispecchia anche nella scelta condizionata di interventi di contrasto alle vecchie e nuove povertà in soccorso dell’imprenditoria lesa dalla criminalità, che da qualche anno alla pari di altre regioni italiane, coinvolgono la società civile e il mondo del Terzo settore nella pianificazione di interventi sperimentali, che liberino energie e risorse nei territori, soprattutto quelli in cui l’incidenza mafiosa è assai persistente, nonostante l’impegno delle Istituzioni.

Ciò non di meno, nonostante le diffuse campagne di sensibilizzazione, il fenomeno del pizzo, ad esempio, viene vissuto ancora oggi da molti imprenditori come una semplice spesa d’esercizio, tant’è vero che l’abilità nella contrattazione dell’ammontare del pizzo viene considerata un indicatore delle capacità imprenditoriali, spingendo addirittura in passato alcune grandi aziende a contattare i boss locali prima di partecipare alle gare d’appalto e prima di decidere se investire su determinati territori. I veri problemi per gli imprenditori sono altri, come ad esempio le assunzioni forzate e l’imposizione di determinati fornitori.

 Ruolo decisivo nelle inchieste della magistratura è in questo senso rappresentato dal giornalismo d’inchiesta. Accanto ai servitori dello Stato, possono essere riconosciuti per pari impegno e dignità, tutti quei uomini e donne che dalle colonne di un giornale fanno da eco al grido di giustizia sollevato da più parti.

La Sicilia, è probabilmente come la Terra desolata descritta nell’opera di T.S. Eliot (The Waste Land), cioè un territorio devastato interiormente, inaridito dalle scorribande dei prepotenti ma pur sempre luogo di speranza, la stessa che Libero Grassi portava in dote alla sua gente nel momento in cui subiva anche l’indifferenza degli industriali siciliani. La morte di Grassi fu l’inizio di una ribellione pacifica che da allora tenta giorno per giorno di sottrarre il nome della Sicilia agli almanacchi dei mafiosi. Questa è l’incognita della nostra salvezza! Il Pizzo danneggia la comunità e l’agire morale è alla base del benessere collettivo.

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