Il mare. Quel mare. Sono nato e cresciuto guardando quell’enorme tappeto d’acqua che mandava profumi e ti accarezzava l’anima ogni volta che lo guardavi e respiravi. L’ho abbandonato pochi anni fa, ma continuo a respirarlo ancora, tutte le volte che torno e mi siedo davanti a quelle onde, su quella sabbia. Il Canale di Sicilia ha lambito le mie estati di bambino, mi ha fatto da amico e da fratello quando, smarrito, ho deciso di andarmene. Oggi è lì, a restituire i morti. A far da cimitero a migliaia di esseri umani, uomini, donne, bambini, neonati. Non sono morti qualunque, non è vero che non hanno un nome. Sono miei amici. Sono gli stessi e le stesse che ho incontrato e che ho avuto l’onore di avere accanto, in Sicilia. Li ho visti quei volti, quei sogni, gli occhi stanchi, i corpi sfiniti da un viaggio terribile e da quello altrettanto terribile prima di imbarcarsi. Quelli dei bambini impauriti, che poi si tranquillizzavano e riuscivano perfino a giocare e sorridere. Da bambini. Ho sentito le loro preghiere quando io mi chiedevo dove diavolo fosse Dio, qualunque Dio. Ho ascoltato le loro voci raccontarmi, discretamente, ogni cosa.
Abbiamo camminato stringendoci le mani, abbiamo manifestato insieme, ci siamo passati un megafono per urlare, per reclamare. Abbiamo pranzato insieme, sorriso, scherzato, ci siamo raccontati dell’Africa, dei suoi colori ineguagliabili, dei tramonti, di come la Sicilia ci somigliasse un po’. Ci siamo messi a piangere ai funerali, quando qualcuno di loro moriva, perché il freddo non lo senti solo sulla barca, ma anche dentro una città che ti lascia solo, negli inverni rigidi. Abbiamo parlato dell’arcobaleno e ciascuno lo chiamava con la propria lingua, sorridendo come bambini che lo vedono per la prima volta. Ci siamo incontrati ovunque, fuori dai centri di accoglienza gestiti come delle carceri, nelle tendopoli, nelle periferie della mia vecchia città, nelle campagne piene di sangue e sudore. Ci siamo seduti insieme sotto gli alberi divenuti case, con i letti di cellophane o materassi malconci su reti arrugginite, i forni di frasche e legnetti, le pentole di latta, i sacchetti di plastica usati come piatti.
Ci siamo visti nei casolari di quelle campagne, scatole di pietra piene di giacigli, senza porte e finestre, con file di vestiti stesi ad asciugare. Lo chiamavano “Hotelˮ, sebbene sapevano quanto lontano fosse dall’idea di un albergo accogliente. Ma bisognava lavorare, provare a essere scelti per qualche giorno dai caporali, quindi se lo facevano andar bene, anche se qualcuno di loro aveva una casa, una moglie e un figlio a 100 chilometri di distanza. Ma anche un’azienda che aveva chiuso e aveva mandato a casa tutti.
Ci siamo incontrati dentro una parrocchia, dove c’era un crocifisso che gli apriva le sue braccia e un uomo generoso che si comportava allo stesso modo, anche se né io né alcuni di loro conoscevamo preghiere o riti di quella chiesa. Io poi non avevo nemmeno un altro dio a cui votarmi. A cui chiedere conto. Ho imparato a conoscere il mondo attraverso di loro, una palestra infinita. Mi hanno dato l’onore di essere loro amico, di insegnarmi che significa vivere e quanto vale una speranza. E lo hanno fatto senza pretendere nulla in cambio. Né una coperta, né un pasto. Non gli ho dato nulla, tranne la penna a cui ho cercato di affidare un po’ della loro voce. Ci siamo salutati, ci siamo persi, rivisti, sentiti. Mille volte nei miei pensieri i loro nomi, gli occhi, le parole, la bellezza di un’umanità eroica nella sua essenza piena di forza. E quanti abbracci veri quando il destino ci ha fatto ritrovare a Milano, a volte per caso altre volte no. Amici. Uomini, donne, persone che hanno rischiato tutto e che ce l’hanno fatta. Nonostante il mare e poi la terra, quella crudele, spietata, vigliacca. Nonostante l’indifferenza e le leggi illegittime, quelle che ti mettono dentro un lager autorizzato, dove qualcuno si arricchisce e prospera, mentre gli ospiti vengono distribuiti nei gironi di un inferno che molte volte si chiama rimpatrio.
Accompagnamenti alla frontiera. Perché li fanno, ogni giorno. Polizia e Carabinieri. Ma se ne parla poco, che il silenzio aiuta a nascondere le schifezze di un sistema basato sulle ingiustizie. Oggi tutti parlano, anche quelli che hanno taciuto quando una loro parola sarebbe contata. Oggi proclamano il lutto nazionale, oggi si accorgono dell’innocenza di quelle vittime che tanto somigliano ai miei amici, uccise e finite dentro un mare che non ha colpa, perché la colpa è di chi ne ha distrutto le leggi naturali. Oggi gente che non ha mai capito niente di quel che significa essere migranti, gente che ha dormito mentre gli altri combattevamo contro la Bossi-Fini o il decreto Maroni o, prima ancora, contro la Turco-Napolitano (ma lì eravamo di meno, che altri mica potevano contestare i loro amici di partito), si chiede cosa c’entrino le leggi con quello che accade nel Mediterraneo, quale sia il nesso causale tra normativa ingiusta e morte in mare, cioè prima dell’approdo. E siamo costretti a rispondere, a spiegare ancora una volta che le leggi autoritarie, la carenza di una normativa sull’asilo, la repressione, la logica e il malfunzionamento delle quote, dei flussi, la mancata creazione di un accesso umano e legale scoraggiano altri tipi di ingresso e favoriscono i trafficanti di uomini.
Oppure dobbiamo far capire che questa tragedia è l’ennesima che si poteva evitare, se ben tre pescherecci si fossero fermati a soccorrere il barcone prima che prendesse fuoco. Perché c’è anche una legge che scoraggia e dice che se soccorri e porti a bordo dei“clandestiniˮ vieni denunciato come un criminale. Certo, c’è anche la cattiva coscienza, perché altri capitani di pescherecci, che ho avuto la fortuna di conoscere, hanno salvato eroicamente centinaia di persone infischiandosene del reato compiuto e della eventuale denuncia. “Noi obbediamo all’antica legge del mare, che dice che i naufraghi vanno salvati, senza pensarci un attimoˮ, mi dissero i fratelli Cangemi. E allora spieghiamo nuovamente che non è punendo la clandestinità che si combatte la tratta di esseri umani. Non è certamente accanendosi sulle vittime che si colpiscono i carnefici.
Soprattutto poi vorrei capire chi sono i veri carnefici. Solo scafisti e commercianti di esseri umani? O anche tutti quei governi che da anni violentano intere parti del pianeta e poi recitano la parte dei commossi quando ci sono i corpi senza vita di bambini, donne, ragazzi adagiati su una banchina di un’isola che sta cercando, nella disperazione, di insegnare a questo mondo un po’ di umanità? O anche gli indifferenti? Sono tanti i colpevoli. Colpevole è anche un’opinione pubblica che tace. Per troppo tempo. Tra una tragedia e un’altra. Tra un fatto e un altro. Non ne parliamo più, non organizziamo più incontri, sembriamo rassegnati. Eppure non è cambiato niente. Solo il Papa sta provando a fare qualcosa, con resistenze fortissime e pericolose dentro la sua chiesa.
Adesso partirà il circo mediatico, che darà spazio alle passerelle, alle volgarità dei leghisti, alle liti come se si stesse parlando di calcio. Non ci sarà rispetto per niente, nemmeno per un silenzio che adesso, come non mai, alcuni dovrebbero praticare in modo rigoroso, tenendo per sé il fiato e occupando il tempo per riflettere sulle proprie colpe. Non ci sarà niente, nemmeno questa volta probabilmente cambieranno le cose. Ne sono convinto. Tra due settimane si saranno dimenticati tutto. Lampedusa tornerà ad essere solo un’isola. Sampieri tornerà ad essere solo una spiaggia. Luoghi per vacanzieri. Si rimetteranno tutti a parlare di Berlusconi, di primarie, di dissidenti, di nulla.
Avrei voluto tacere anche io, essendo investito da questa prospettiva pessimistica, ma non ce l’ho fatta, perché le lacrime trattenute per un giorno intero avevano nomi, volti, storie. Mi hanno invaso il cuore, mi hanno strattonato l’anima, bloccato i muscoli, hanno imprigionato la rabbia dentro il mio stomaco, sconquassandolo. Dovevano uscire, perché non sono certo io quello che deve nascondersi o tacere. Ha ragione una mia amica quando dice che non siamo tutti colpevoli. Ma i colpevoli ci sono eccome. E sono rei di genocidio e di indifferenza. Due colpe diverse ma perfettamente complementari.
Non hanno ucciso fantasmi, ma esseri umani. Amici. Ed erano anche miei amici.
Massimiliano Perna