L’altra faccia di Trapani

Il 3 agosto 1838, Pietro Calà Ulloa, procuratore del Rea Trapani, così scrive al ministro della Giustizia Parisio : La venalità e la sommissione ai potenti ha lordato le toghe di uomini posti nei più alti uffici della magistratura. Non vi ha impiegato che non sia prostrato al cenno ed al capriccio di un prepotente e che non abbia pensato al tempo stesso a trae profitto dal suo Uffizio. Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi. Vi ha in molti paesi delle Fratellanze, specie di sette che dicono partiti, senza colore o scopo politico, senza riunione, senz’altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di esonerare un funzionario, ora di difenderlo, ora di proteggere un imputato, ora di incolpare un innocente. Sono tante specie di piccoli Governi nel Governo. Il popolo è venuto a tacita convenzione con i rei. Come accadono i furti, escono i mediatori ad offrire transazione pel ricuperamento degli oggetti involati. Il numero di tali accordi è infinito. Molti possidenti perciò hanno creduto meglio divenire oppressori, e s’iscrivono nei partiti.

Era il 1838 non il 2013. Ma sembra oggi. Cercate e volete trovare i segni dell’infiltrazione mafiosa nel tessuto sociale? E’ a Trapani che dovete venire. Cercate i segni primordiali degli inciuci tra Stato e Mafia? Passate per Montelepre e poi per Castelvetrano qualcuno ancora oggi potrà raccontarvi qualcosa, di un certo Giuliano, degli ammazzati vari, dei tradimenti. Volete sapere qualcosa sulla massoneria? Destinazione Trapani e i suoi gran maestri che facevano le iniziazioni secondo i riti dell’onorata società. Mafia, politica, banchieri, appalti, imprese, grandi opere, mazzette, tangenti, racket…no questo no, qui si paga la quota associativa a Cosa nostra, qui è cresciuta con illuminata sapienza il sapere fare convivere mafia e politica, figuratevi a prendere lezione sulla convivenza venne pure il suo primo ideatore, il ministro Pietro Lunardi.

Trapani e la mafia. Una storia segnata dal sangue di tantissimi morti ammazzati, da faide, territorio che è crocevia di misteri, politica, servizi segreti, italiani e stranieri, Gladio, massoneria. Qui c’è la storia di quella mafia che da queste parti è stata sempre sommersa perché qui è nata sommersa. Infiltrata nella borghesia, nei salotti della città, nei circoli nobiliari. Qui a Trapani pochi sono stati gli uomini d’onore con coppola e lupara, molti di più quelli che erano stati “punciuti” o erano vicini alla mafia, personaggi con tanto di blasone, nobili, banchieri, professionisti….in una parola borghesi. Ninni Cassarà, che prima di arrivare a Palermo, dove fu ucciso nel 1985, fu capo della Squadra Mobile di Trapani, da qui fu trasferito dopo un alterco con il questore perchè era andato a bussare alla porta di un circolo, che ancora esiste, in via Palmerio Abate, un salotto “buono” a un tiro di schioppo da prefettura, questura e tribunale. All’ombra di questi “palazzi” nelle stanze di quel palazzo nobiliare i borghesi si incontravano, i borghesi non “punciuti” si vedevano con i borghesi-mafiosi “punciuti”, e parlavano, parlavano, parlavano, concordavano le cose da fare e da far fare. Fu lì che anni dopo in una intercettazione gli investigatori guidati da uno dei successori di Cassarà, il poliziotto Giuseppe Linares, sentirono fare a due persone un discorso strano, una persona che chiedeva ad un altra un consiglio, ma era in realtà la richiesta di avere concesso un permesso, a realizzare una impresa, una attività, gli investigatori sentirono delle strane parole, una risposta che li lasciò perplessi, “un fari e un fare fari”, non fare e non lasciar fare. Tempo dopo capirono quegli investigatori, quando cominciarono a venire fuori grandi e anche piccoli appalti che giravano sempre tra le stesse imprese, che secondo un ragionamento mafioso di quei due interlocutori quello non era il momento di fare e non era nemmeno il momento di lasciar far fare, tutto doveva restare immobile, in attesa dei tempi giusti, che arrivarono, quando mafia, politica e impresa a Trapani riuscirono ad accomodarsi allo stesso tavolo. La vicinanza tra affari leciti ed illeciti fu tale, divenne tanto intima, un unico corpo, che alla fine il sistema legale divenne quello illegale, e che la normalità era quella di vedere, senza farci molto caso, e senza scandalizzarsi, il mafioso in grisaglia che usciva dall’ufficio del politico. Don Ciccio Pace è stato uno di questi mafiosi in grisaglia e che si rapportava con i politici, tutti facevano finta di non sapere che lui era un sorvegliato speciale, ma mica si può sapere tutto si sentirà dire a qualche politico quando Pace verrà riarrestato. Trapani oggi continua ad essere quella di sempre, dove lo Stato da sempre è Cosa Nostra, anzi “Cosa Loro”. Trapani è la città che ha da sempre una miriade di sportelli bancari, dove hanno riaperto le finanziarie e dove innumerevoli sono i negozi che comprano oro. Dove non mancano le sale bingo e del poker on line. Slot machine in ogni bar. Paolo Borsellino e Giovanni Falcone avrebbero avuto l’idea di creare un pool antimafia a Trapani. Se Palermo è la capitale della mafia, Trapani resta la capitale del settore finanziario, lo zoccolo duro di Cosa Nostra dove il controllo del territorio è pressocché totale, dove il rapporto con le istituzioni e con la Massoneria è tradizionale. L’organizzazione ha concorso a coordinare anche la gestione di iniziative imprenditoriali. Trapani è la città, la provincia, dove più antichi e collaudati sono i rapporti tra cosa nostra e le famiglie mafiose sparse sui 5 continenti e altre organizzazioni criminali estere. La provincia siciliana dove per decenni si è sparato di meno è anche la più impenetrabile. Cosa Nostra da queste parti ottiene quello che vuole senza sparare, fa affari con gli appalti e si siede nei salotti che contano.

Un giornalista (di quelli senza tessera) che in realtà era oltre che un cronista anche un’altra cosa, era un sociologo, un amante della vita, uno che si era messo in testa di fare il “terapeuta” della città, insomma in due parole, Mauro Rostagno, aveva non solo intuito ma scoperto quello che a metà degli anni ’80 andava accadendo, la trasformazione della mafia, la mafia che diventava impresa, lui si ritrovò a cinque passi dalla stanza dove gli imprenditori parlavano di affari, lavorava a Rtc Mauro Rostagno e l’editore era un imprenditore, Puccio Bulgarella, che si incontrava con Angelo Siino, il ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra, che andava a passeggio a Roma col latitante Giovanni Brusca, che prendeva lavori a Castelvetrano parlando con i politici che si vedevano con i Messina Denaro. Rostagno un giorno, poco tempo prima di essere ucciso andò a Palermo, si vide con Giovanni Falcone. Non si è mai saputo cosa si dissero. Ucciso Rostagno poi Falcone non ebbe a commentare particolarmente quel delitto. Però i due si videro e parlarono di qualcosa, di Trapani certamente. Forse mancò a Rostagno la netta percezione di quello che stava succedendo in provincia di Trapani se fosse riuscito a esternarla a Falcone la reazione del giudice sarebbe stata diversa, anche davanti al corpo straziato di Rostagno ucciso la sera del 26 settembre 1988. In quell’anno andava emergendo la figura di Matteo Messina Denaro di Castelvetrano, figlio d’arte: suo padre Francesco è stato uno degli ultimi anziani boss morto nel suo letto, era il 30 novembre del 1998. Dieci anni prima Matteo Messina Denaro aveva cominciato a fare le sue carneficine, veniva a Trapani facendosi accompagnare da un barone, il banchiere Antonio D’Alì per riprendersi il denaro in una finanziaria malmessa, come ha raccontato un collaboratore di giustizia, Giovanni Ingrasciotta, meditava di costruire sui terreni acquistati per poche lire o addirittura estorti, la nuova Castelvetrano, la “Castelvetrano 2” la chiamava, e però c’era quel giornalista, c’era Rostagno che in tv come hanno detto i pentiti parlava sempre di “ mafia, mafia, mafia”, “era una camurria” e Cosa nostra lo fece uccidere.

Trapani ventuno anni dopo Capaci. Si dice che Falcone sia andato via da Palermo, con destinazione ministero della Giustizia, con la curiosità di non aver potuto indagare sul centro Scorpione della struttura Gladio. La base “Scorpione” è una caserma che si trova arroccata sulle montagne di un piccolo paese del trapanesi, Makari, poco distante da S. Vito Lo Capo, e che aveva anche in uso un piccola pista di atterraggio sulla costa, in contrada Castelluzzo e poi anche contava su aeroporti militari ufficialmente chiusi a Chinisia e Milo. Mauro Rostagno pare, si dice, ma sono sempre mancate le emergenze investigative, solo riferimenti senza riscontri, che si sia interessato a strani voli militari, strani affari ed affaristi trapanesi. I riscontri seri, con tanto di parole registrate impresse assieme alle immagini su innumerevoli video cassette, che forse mai nessuno si è preso davvero la briga di vedere tutte per intero, si sono trovate in quello che in tv portava Rostagno. Nel 1988 porgeva il microfono a Borsellino, alla mamma dell’agente Antiochia, intervistava lo scrittore Cimino e Claudio Fava, sbeffeggiava Mariano Agate. Ventuno anni dopo Capaci a Trapani. Una caratteristica di Cosa Nostra a Trapani è stata l’essere diventata stato, società e mercato. Parlando di Trapani il procuratore generale di Caltanissetta, Roberto Scarpinato, cita Hegel e dice: «Il demonio si nasconde nel dettaglio», come dire «una piccola storia dove dentro c’è tutta la storia», dell’arroganza mafiosa e di un territorio che non pensa ad affrancarsi dal fenomeno, che sceglie «la diserzione civile». Il sostituto procuratore Andrea Tarondo spiega così come nel trapanese ci sia una generale intimidazione dell’imprenditoria trapanese: «Una imprenditoria che è restia a sottrarsi al controllo mafioso, perché l’attività estorsiva è una delle componenti di un rapporto più ampio, Cosa Nostra favorisce gli imprenditori che acconsentono alle richieste secondo quella strategia che evita il più possibile l’atto eclatante, e così il soggetto sottoposto a estorsione è un soggetto addomesticato, avvicinato, consapevole di quelli sono i suoi doveri per la “messa a posto”, un imprenditore che ha coscienza del fatto che c’è una mafia in grado di gestire l’aggiudicazione degli appalti». Qui perciò non si paga il pizzo, «ma la quota associativa a Cosa Nostra».

La Trapani del 2013 si presenta diversa dalla Trapani che 25 anni addietro veniva raccontata da Mauro Rostagno dagli schermi di Rtc, oggi la città è cambiata, ma dietro gli abbellimenti, dietro i tesori monumentali ed ambientali risorti suscitando ammirazione e piacere, Cosa Nostra ci ha guadagnato per colpa di imprese per nulla virtuose, l’ultima di queste, l’impresa Morici/Coling ha appena subito un sequestro da 30 milioni di euro. La nuova mafia, almeno quella di Trapani,  raccontata dagli investigatori come il “poliziotto” Giuseppe Linares, non è mica tanto sommersa, è quella che ha gli imprenditori che dal carcere continuano a dirigere le imprese o anche a dirottare pacchetti di voti alle elezioni. «Il sistema continua ad esercitare una funzione di catalizzatore sociale» ha spiegato più di una volta Linares e lo ha spiegato parlando e spiegando di come andare a catturare Matteo Messina Denaro, ma lui, promosso, adesso non fa più parte dell’intelligence che dà la “caccia” al boss. Anche questo succede 21 anni dopo Capaci. Matteo Messina Denaro continua a tenere bene in mano le fila di molte cose.

Rino Giacalone

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