“Io voglio scrivere che la mafia è una montagna di merda!”, c’è chi ha il coraggio di urlarle queste parole, chi ha perso la vita pur di denunciare le atrocità commesse dalla mafia. Peppino Impastato, Rita Atria, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Carlo Alberto dalla Chiesa. Ma la lista dei nomi è lunga, e ad essa, per fortuna, appartengono anche nomi di persone ancora in vita, persone nei cui cuori arde sempre costante la speranza di distruggere il cancro che attanaglia la bella Sicilia, o meglio, l’Italia e il mondo intero: la mafia.
Ma è ancora giusto parlare di mafia o è più corretto parlare di mafie?
Siamo nella Palermo del 1865 quando Filippo Antonio Gualtiero, capo della Procura, utilizza per la prima volta il termine mafia, in un suo rapporto, con l’accezione che tutt’ora conserva. Il termine, però, viene diffuso già alcuni anni prima con il dramma di Giuseppe Rizzotto “I mafiusi di la Vicaria”; fino a quel momento la parola mafia non veniva mai collegata con le attività statali, era un’organizzazione al di fuori di esse anche se strettamente legatavi.
Collegato strettamente alla Sicilia, il termine mafia indica precisamente Cosa Nostra, organizzazione criminale nata nell’isola all’inizio del XIX secolo e modificatasi radicalmente nella metà del XX diventando un’organizzazione a livello internazionale. Ma Cosa nostra non è l’unica esistente: ‘Ndrangheta, Sacra Corona Unita, Camorra, sono tutte organizzazioni criminali molto potenti nel nostro paese e nel mondo, proprio per questo non è più corretto parlare di mafia bensì il termine più giusto oggi è mafie.
La struttura di Cosa Nostra ha una rigida gerarchizzazione dei poteri, gerarchizzazione verticistica molto simile a quella militare: alla base ci sono le famiglie, governate da un capo-famiglia, queste, a loro volta, si dividono in decine, gruppi di dieci uomini comandati da un capo-decina; tre famiglie situate nella stessa zona formano un mandamento e vengono governate da un capo-mandamento, in passato questo non apparteneva a nessuna delle tre famiglie per evitare di creare favoritismi, adesso non è più così. I capi-mandamento sono riuniti in una Cupola o Commissione che gestisce e regola l’intera organizzazione mafiosa. Questa gerarchizzazione ha perso gran parte della sua forza a causa dei duri colpi inferti dalle forze dell’ordine, adesso la Cupola di Palermo, in passato la più potente, è diventata più debole dando maggiore forza alle commissioni delle altre provincie.
Il primo sintomo di indebolimento della mafia si è manifestato quando Leonardo Vitale, detto Joe Valachi, appartenuto per oltre un decennio (1960-1973) a Cosa Nostra, decide di pentirsi e denunciare gran parte dei capi mafiosi di quegli anni, da Totò Riina a Bernardo Provenzano, da Michele Greco a Vito Ciancimino. Nessuno all’interno delle forze armate si sarebbe mai aspettato che tutto ciò che Leonardo Vitale raccontava fosse la realtà: è stato sottoposto a varie sedute psichiche ed in fine è stato giudicato malato e per questo rinchiuso in manicomio per oltre 10 anni. Trascorso il periodo di “prigionia” riprese l’abituale routine delle sue giornate: nessuno, né le forze dell’ordine, né lui stesso avrebbero mai immaginato che sarebbe stato ammazzato appena due mesi dopo il ritorno alla libertà. La sua morte è stata l’unica vera prova che ha dimostrato la verità delle sue affermazioni, una prova importante che ha cambiato la storia della Sicilia e di Cosa Nostra; prima di allora intatti, in Italia, nessuno aveva mai voluto parlare delle atrocità commesse dalla mafia.
Una delle armi principali che ha lo Stato per difendersi da questo cancro che attanaglia la nazione, è quella costituita dai testimoni di giustizia, persone che non hanno commesso alcun reato, ma che sono venute a diretto contatto con le organizzazioni criminali. Quella dei testimoni di giustizia è una figura introdotta nella giurisdizione italiana soltanto dal 2001, prima infatti, esisteva un unico termine, collaboratore di giustizia, che includeva anche i pentiti di mafia.
Ma coloro che sono vittime della criminalità mafiosa non possono avere gli stessi diritti di chi invece nella mafia ha vissuto e si è arricchito. Le dichiarazioni dei testimoni di giustizia spesso sono indispensabili per lo svolgimento delle indagini e per l’arresto dei colpevoli, ma tutto questo ha un duro prezzo da pagare: sono vittime costrette a vivere quasi in esilio, lontane dai loro affetti e dalle loro abitudini, costrette a costruirsi un’altra identità e un’altra vita, e spesso questo è causa di gravi disagi psicologici, come nel caso della diciassettenne Rita Atria.
Figlia del piccolo boss mafioso Vito Atria, dopo la morte del padre stringe ancor più il suo legame con il fratello Nicola, fratello che le racconterà tutti i più intimi segreti sugli affari e le dinamiche mafiose a Partanna, loro paese di nascita. Anche lui, sei anni dopo il padre, subirà la stessa sorte. Rita così decide di raccontare alle forze dell’ordine, seguendo l’esempio dalla cognata Piera Aiello, tutto quello che sapeva. Fedele amico delle due giovani donne è stato Paolo Borsellino: guida essenziale, le ha protette e aiutate, tanto da diventare una figura indispensabile per le loro vite. Dopo la strage di via d’Amelio, nella quale Paolo Borsellino, insieme ai suoi cinque agenti della scorta, perse la vita, Rita, appena diciassettenne, decide di suicidarsi buttandosi dal settimo piano del suo appartamento a Roma: aveva compreso che con la morte del giudice nessuno le avrebbe più protette.
Piera Aiello, nonostante sia rimasta completamente sola, continua da presidente dell’associazione antimafia Rita Atria, la sua lotta alle organizzazioni criminali.
L’unico modo per combattere questa malattia è infatti parlare, avere il coraggio di raccontare ciò che accade, smettere di nascondersi dietro false ipocrisie, affrontare la realtà e denunciare ciò che succede.
La verità non deve essere raccontata solo dai giornalisti, la verità deve essere denunciata anche dagli scrittori, “uno scrittore ha il dovere di dire le cose, anche se possono essere scomode e imbarazzanti” dichiara Dacia Maraini durante la presentazione del suo libro Sulla Mafia, “i panni sporchi devono essere lavati in pubblico” continua “Roberto Saviano è uno scrittore che ha avuto la forza di essere testimone del suo tempo”.
Ma purtroppo non tutti hanno il coraggio di scrivere nomi e cognomi di mafiosi e criminali, non tutti hanno il coraggio di seguire l’esempio dei tantissimi eroi che l’Italia ha avuto. “Sta proprio in questo l’errore: creare degli eroi, metterli sopra un piedistallo e poi dimenticarli” afferma la Maraini “l’Italia ha bisogno di modelli, perché i modelli sono la guida dei giovani di oggi, giovani che non hanno alcun movimento culturale da seguire che manifesti il pensiero di tutte quelle persone che si sono battute per sconfiggere la mafia”.
Nonostante questo la nostra nazione ha compiuto dei grandissimi passi in avanti nella lotta alle organizzazioni mafiose: “Quando io ero piccola” racconta la scrittrice “la mafia era un tabù linguistico, nessuno avrebbe mai neanche solo pensato di denunciare ciò che accadeva. La parola era indice di pericolo”. Dopo gli anni ’70, invece, la parola non solo ha iniziato a diffondersi, ma è diventata anche l’unica via d’accesso per evitare l’omicidio: costituirsi, denunciare le atrocità mafiose e andare in carcere offriva una via di fuga alla vendetta criminale. E proprio pentiti come Leonardo Vitale, Giovanni Brusca, Tommaso Buscetta hanno mostrato a tutti di quali atrocità si può rendere colpevole un uomo, hanno portato alla luce la struttura mafiosa, struttura talmente tanto gerarchizzata che a volte la vera identità dei boss è tenuta all’oscuro anche a chi lavora per loro.
Spesso sono proprio le donne, sorelle, madri, mogli, ad essere a conoscenza di tutti gli affari illeciti che vengono compiuti nella propria famiglia, donne confidenti, e custodi dei segreti più atroci. Come Rita Atria, moltissime altre hanno sopportato il peso di una verità tragica, ma poche di queste hanno deciso di raccontare ciò che sapevano. Gerarchicamente il gentil sesso non ha alcun ruolo all’interno dell’organizzazione mafiosa, accetta una posizione di quasi totale sottomissione, non partecipa attivamente alle azioni criminali che vengono compiute, ma il suo potere è spesso rilevante, seppur invisibile. Le donne, infatti, hanno una grande influenza sui propri compagni, fratelli o figli, un’influenza che a volte può cambiare la vita di qualcuno, un’influenza tale da poter sfociare nel pentimento dell’uomo.
Il più grande pericolo di oggi, non sono più le singole organizzazioni mafiose, ma l’insieme di queste. Inizialmente, infatti, la mafia operava su un bacino locale strettamente limitato, con il passare del tempo e soprattutto con lo sviluppo del commercio della droga, la mafia ha ricoperto un territorio sempre più vasto, sino a raggiungere l’intero globo.
Ma per fortuna la speranza di sconfiggerla arde ancora nei cuori di moltissima gente: “la mafia” afferma la Maraini “così come è iniziata può e deve finire!”