Toghe rosso sangue

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Ventinove. Ventinove giudici, ventotto uccisi e uno scomparso nel nulla (Paolo Adinolfi scomparso a Roma il 2 luglio 1994). Magistrati italiani, uccisi dalla criminalità organizzata, dal terrorismo o dall’eversione nera. Uomini, prima ancora che magistrati. Uomini assassinati «dal loro coraggio», assassinati perché hanno scelto di non farsi i fatti loro, perché «i giudici sono sbirri e gli sbirri muoiono perché non si fanno gli affari loro». Morti di morte violenta e in molti casi condannati ad una seconda morte, quella dell’oblio. A noi il compito e l’urgenza di fare memoria e di conservarne il ricordo e l’esempio.

 

Da Antonino Giannola, ucciso il 26 gennaio del 1960 nel Palazzo di Giustizia di Nicosia, a Fernando Ciampi, ucciso il 9 aprile 2015 nel Palazzo di Giustizia di Milano. Una lunga cavalcata di nomi, eventi, vite, persone. Sono loro i protagonisti della piéce teatrale “Toghe rosso sangue – La vita e la morte dei magistrati italiani assassinati nel nome della giustizia”, scritta da Giacomo Carbone per la regia di Francesco Marino, tratta dal libro del giornalista e scrittore Paride Leporace e patrocinata dall’ANM – Associazione Nazionale Magistrati.

 

Sul palco Francesco Polizzi, Emanuela Valiante, Diego Migeni e Sebastiano Gavasso riportano “in vita” le storie dei giudici con monologhi e scambi di battute dal ritmo incalzante, ora delle vittime ora dei carnefici. Un racconto a quattro voci che si fa testimonianza e che ricostruisce le vite e le morti di questi uomini di giustizia con la sola forza delle parole in una scenografia essenziale composta solo di quattro sedie. In scena dal 2010, lo spettacolo continua ad appassionare il pubblico di tutta Italia e a registrare – come è avvenuto nelle tre date romane (8-9-12 aprile) – il tutto esaurito. L’ultima, quella del 12 aprile presso il teatro Argentina, vede in platea un pubblico interamente fatto da studenti.

 

Ed è a loro che si rivolge a conclusione dello spettacolo il PM Enzo D’Onofrio, magistrato campano da anni sotto scorta poiché minacciato dalla camorra. «Fatti i fatti tuoi», gli dissero i genitori quando a 12 anni raccontò loro di aver assistito senza reagire ad un atto di bullismo ai danni di un suo amico fraterno. « Questo “fatti i fatti tuoi” è una risposta data nella convinzione che se noi ci giriamo dall’altra parte e volutamente non vediamo, volutamente non sentiamo e volutamente non chiediamo spiegazioni al violento – continua il magistrato – ci fa vivere meglio. E questa è la regola su cui cresce la mafia. Questa è la regola per cui la mafia controlla, non solo fisicamente o territorialmente ma anche mentalmente, popolazioni di gran parte di questo paese. Controlla le menti perché sa che dove non si parla loro possono proliferare». Un metodo talmente diffuso da non appartenere più soltanto «a chi porta coppola e lupara» ma anche alle grandi amministrazioni pubbliche in cui tra colleghi ci si volta dall’altra parte di fronte ad un illecito così come tra ragazzi di fronte ad un episodio di bullismo. «Il bullismo – afferma D’Onofrio rivolgendosi ai ragazzi – ha molto in comune con la mafia. È una situazione criminale che si protrae nel tempo. Si diventa mafiosi e bulli perché gli atti di violenza sono reiterati nel tempo. E cosa consente al mafioso, al bullo, al corrotto di reiterare il suo comportamento? Non è la violenza in sé, tutti costoro hanno paura che gli altri parlino. Che gli altri anziché voltarsi dall’altra parte si girino verso di loro guardandoli in faccia. Il mafioso su un territorio in cui la gente parla non ha alcun interesse a starci perché la sua forza non è sparare, non è estorcere ma far tacere gli altri». 

 

La parola e la società che non si volta dall’altra parte di fronte alle ingiustizie e agli illeciti, questa la chiave di volta. « Ci sono persone che sono morte per questo. Deteniamo un record mondiale, siamo il paese che ha ucciso più magistrati al mondo. Quando i vostri coetanei vi chiederanno ‘Cosa fa un magistrato in Italia?’ rispondete loro che il magistrato è uno che per dovere si deve fare i fatti degli altri in un paese in cui la regola che ci viene istillata già da ragazzini è quella di farsi i fatti propri. Quei magistrati non erano migliori degli altri, io non giro scortato dal 1999 perché sono migliore di altri, don Giuseppe Diana e don Pino Puglisi non erano migliori degli altri. Si comincia a morire quando gli altri si girano dall’altra parte perché i mafiosi escono pazzi nel momento in cui si abbandona il silenzio e si comincia ad usare le parole».

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Classe 1987, romana di nascita e siciliana d'origine. Comunicatrice e addetta stampa free lance. Dopo gli studi classici si laurea in Lingue e comunicazione internazionale (curriculum Operatori della comunicazione interculturale) e in seguito, presso l'università “La Sapienza” di Roma, si specializza in giornalismo laureandosi con una tesi d'inchiesta sul giornalismo in terra di camorra. Ufficio stampa e social media manager per festival, eventi ed associazioni in particolare in ambito culturale e teatrale oltre che per Europride 2011, Trame - Festival dei libri sulle mafie e per l'agenzia di stampa Omniroma. Collabora con diverse testate occupandosi in particolare di tematiche sociali, culturali e politiche (dalle tematiche di genere all'antimafia sociale passando per l'immigrazione, il mondo Lgbtqi e quello dei diritti civili). Ha curato l'appendice cronologica del libro "Roma Brucia" (Imprimatur Editore, 2015) del giornalista Pietro Orsatti con la cui regia ha inoltre realizzato due brevi documentari ("Sulla linea di scena" e "Domani il Pride"). Da sempre appassionata di (inter)culture, musica, web, lingue, linguaggi e parole.

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