Una moderna ed efficace lotta alla mafia

Intervista di M. Scirè a Beppe Lumia


In questi ultimi anni la magistratura e le forze dell’ordine hanno inferto colpi importanti alle organizzazioni criminali, ma le mafie sono dure a morire, anzi reagiscono e si riorganizzano velocemente.

Stiamo vivendo una fase delicatissima nella lotta alla mafia. In questo momento si ha la sensazione che lo Stato sia in vantaggio e che il fenomeno mafioso sia stato ridimensionato. Niente di più sbagliato. Le mafie da sempre nei momenti di difficoltà si inabissano per riorganizzarsi e per continuare a coltivare i propri interessi senza “fare scruscio”, ovvero senza fare rumore.  Ci sono alcuni segnali che bisogna tenere ben presenti, come la recrudescenza mafiosa che ha nel mirino molti servitori dello Stato. I tanti messaggi intimidatori e i piani omicidi nei confronti di magistrati, amministratori e politici in prima linea nella lotta alle mafie fanno parte di una strategia della tensione che rischia di sfociare in uno scontro cruento con lo Stato. A questi si aggiungono episodi inquietanti, come  la scomparsa dagli archivi dei tribunali di documenti importanti per le indagini sulle stragi di mafia del ‘92/’93; la continua riproposizione da parte dell’esecutivo e della maggioranza di leggi che potrebbero danneggiare la lotta alle mafie.

Anche lei è stato oggetto di piani omicidi come hanno rivelato i boss Nino Giuffrè e ultimamente il collaboratore Stefano Lo Verso. Come vive questa condizione di condannato a morte?

Quando la mafia viene sfidata nei territori, facendo nomi e cognomi, smascherando interessi e collusioni con settori della politica e dell’economia, rendendo evidenti i guasti prodotti all’intera società, la piovra reagisce mostrando il suo volto più spietato e sanguinario. È una battaglia senza esclusione di colpi, che va combattuta a viso aperto e con sempre maggiore determinazione. Sono tante le minacce che ho ricevuto da Cosa nostra per il mio impegno antimafia e due volte la cupola è arrivata ad un passo dal decretare la mia eliminazione. Non l’ha fatto solo perché Bernardo Provenzano temeva le ripercussioni che avrebbe potuto avere l’omicidio.

Sapere di essere condannati a morte è un peso difficile da portare, ma un rischio inevitabile se si crede profondamente nella giustizia sociale e se per questo si decide di dedicare il proprio impegno politico contro la mafia, per la legalità e lo sviluppo.

L’auspicio è che tutte le forze sane della società, le istituzioni e l’intera politica facciano ciascuno il proprio dovere fino in fondo e sappiano sostenere l’impegno dei  soggetti più esposti. E’ fondamentale abbandonare la facile retorica di un’antimafia formale per colpire la criminalità organizzata con mezzi e strumenti adeguati e una legislazione idonea, da applicare con severità. E’ giunto il tempo per tutti i partiti di dare segnali forti nella lotta alla mafia, a cominciare dall’adozione di una legge sulla incandidabilità che impedisca a persone colluse di accedere dentro le istituzioni.

 

Perchè ha deciso di dedicare il suo impegno politico contro le mafie?

Chi nasce e cresce in una Regione come la Sicilia, oltre a vederne il volto violento e sanguinario nella catena ininterrotta di crimini spietati, ha la possibilità di capire fino in fondo cos’è la mafia, come essa condizioni  l’economia, la politica, quindi, la vita delle persone, negando diritti e libertà che un Paese democratico e civile dovrebbe assicurare. Prendiamo il settore della Pubblica amministrazione, a cui imprese vicine a Cosa nostra e grazie all’intermediazione di politici collusi hanno facile accesso, mentre altre sono costrette a sopportare lungaggini, soprusi e angherie che frenano la crescita e lo sviluppo dell’impresa sana e produttiva. Tanti i casi eclatanti, tra essi mi vengono in mente quelli  della società Altecoen dei fratelli Gulino e della società Acqua Geraci. La prima, pur essendo sprovvista di certificato antimafia, è stata ammessa a far parte di uno dei raggruppamenti di imprese per la costruzione dei termovalorizzatori. La seconda, invece, pur avendo tutte le carte in regola attende da ben 20 anni un’autorizzazione che  consentirebbe all’azienda di ampliare la produzione, lo stabilimento e di assumere altri lavoratori. Lo stesso accadeva nel settore della sanità dove l’allora governatore della Regione Siciliana, Totò Cuffaro, in carcere per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra, concordava nel retrobottega di un negozio di articoli sportivi i rimborsi, di molto superiori al costo reale, per le prestazioni sanitarie fornite dalla clinica convenzionata Villa Santa Teresa con il proprietario, l’ingegnere Michele Aiello, anche lui arrestato e condannato per associazione mafiosa. Si pensi poi al variegato mondo degli appalti e dei lavori pubblici per la costruzione di strade, ponti, ospedali che a distanza di anni cadono a pezzi a causa del cemento depotenziato, dei materiali e della manodopera di scarsa qualità forniti da imprese mafiose riuscite ad infiltrarsi negli appalti.

 

L’elenco potrebbe continuare a dismisura …

Bastano questi pochi esempi a dare il senso della forza devastante della mafia: quanti posti di lavoro sono abortiti e quante famiglie avrebbero potuto vivere dignitosamente? Quante risorse sono state sprecate, che potevano essere investite in strutture, infrastrutture per garantire servizi pubblici e supporti adeguati al sistema produttivo? Quanti pazienti sono stati costretti a intraprendere i cosiddetti “viaggi della speranza”?

Ecco il senso del mio impegno nella lotta alla mafia, nella consapevolezza che questa sia la priorità assoluta della politica per liberare il Paese da un cancro maledetto che impedisce l’affermazione della legalità e dello sviluppo.

Una convinzione  maturata grazie all’esempio di figure guida per me molto significative, che hanno segnato la mia formazione culturale e valoriale. Uno di questi è don Pino Puglisi che conobbi da giovane a Palermo quando facevo parte della Fuci (Federazione universitaria cattolica italiana). La sua azione pastorale e formativa con i giovani universitari prima e poi con i ragazzi di Brancaccio, uno dei quartieri più difficili del capoluogo siciliano, rappresenta per me un punto di riferimento assoluto. Quando fu ucciso noi giovani cresciuti con le sue parole e i suoi insegnamenti giurammo che ci saremmo impegnati contro la mafia, per la promozione umana e il bene comune.

Un’altra figura a me molto cara è Saveria Antiochia, mamma di Roberto il poliziotto che dopo l’omicidio del commissario Beppe Montana decise di rinunciare alle ferie per stare accanto al capo della Squadra mobile Ninni Cassarà. I due furono uccisi il 6 agosto del 1985. Da allora iniziò una nuova vita per Saveria. Dopo il dramma e la disperazione per la morte del figlio, trovò la forza per rimettersi in piedi e fare un’intensa opera di testimonianza. Richiamò le istituzioni alle loro gravi responsabilità, incontrò migliaia di giovani nelle scuole, nelle parrocchie e nelle associazioni. Saveria aveva la capacità di far vibrare le corde civili di ognuno che la ascoltava. Io la conobbi in una di queste occasioni e da allora divenne per me una interlocutrice fondamentale e determinata sostenitrice di un impegno che dal volontariato era approdato alla politica.

Nel corso della mia attività politica ci sono state altre persone che hanno ravvivato le ragioni del mio impegno antimafia. Tra queste voglio ricordare la mamma di Peppino Impastato, Felicia, che conobbi quando con la Commissione antimafia andammo a Cinisi, per renderle verità e giustizia dopo decenni di ritardi e depistaggi sull’assassinio del figlio, e Mico Geraci. Con Mico sfidammo il potere mafioso di Caccamo, uno dei mandamenti più forti e importanti di Cosa nostra. La sua candidatura a sindaco era un’insidia talmente pericolosa per gli equilibri politico-mafiosi che cosa nostra  decise di annullare con il suo assassinio l’8 ottobre del 1998.

 

La capacità delle mafie di inquinare la politica, la pubblica amministrazione, l’economia … non valgono solo per il Mezzogiorno.

Esatto, valgono per tutto il Paese proprio perchè negli anni la politica ha fatto poco per contrastare le mafie, anzi al contrario spesso ha colluso con esse in cambio di voti e denaro, consentendo loro di rafforzarsi e allungare i tentacoli su tutto il territorio nazionale ed anche oltre. Le mafie, infatti, sono attratte dagli affari e dal potere per cui si spostano laddove c’è ricchezza da predare. E’ diventata ormai tristemente famosa, grazie al cinema, la colonizzazione mafiosa degli Stati Uniti d’America da parte di Cosa nostra. Dagli anni ‘60 è stata la ‘Ndrangheta l’organizzazione criminale più attiva e dinamica. In questi decenni ha esteso il suo dominio nel Nord dell’Italia, in particolare in Lombardia, ma anche all’estero, in Germania, in Canada in Australia. La mafia calabrese intrattiene ottimi rapporti con i cartelli sudamericani del narcotraffico e ricopre un ruolo di primo piano nella gestione del traffico internazionale di stupefacenti, è dedita al riciclaggio di denaro sporco che ripulisce attraverso attività legali. L’ingordigia e il cinismo delle mafie non trovano ostacoli, come in occasione della ricostruzione post terremoto in Abruzzo. Esse si  infiltrano attraverso i subappalti e la compiacenza di sciacalli – imprenditori vicini ad ambienti criminali, alti burocrati e politici… basti pensare alle telefonate di coloro che si sfregavano le mani e sghignazzavano in vista dei tanti milioni di euro che sarebbero piovuti sull’Aquila e sulle città colpite dal sisma.

Il fenomeno mafioso non è più un problema relegato ad alcune Regioni del Sud, nè riguarda un settore specifico della vita del Paese, ma è una vera e propria “questione nazionale”. Le mafie, inoltre, oltre a calpestare i diritti, a imprigionare le libertà e a tarpare le ali allo sviluppo rischiano di compromettere irrimediabilmente la democrazia e lo Stato di diritto perchè inquinano la società e le istituzioni.

 

Come realizzare un’azione di contrasto che ci possa liberare dalle mafie?

Intanto bisogna precisare che una moderna ed efficace lotta alla mafia va condotta da più soggetti e su più fronti. La lotta alla mafia non è un’esclusiva, nè può essere demandata in toto alla magistratura e alle forze dell’ordine, che devono essere sostenute dalla società civile e dalla politica con parole forti e fatti concreti. Gli arresti, i sequestri e le confische sono fondamentali e servono a vincere una battaglia, ma non la guerra. Per vincere le mafie è indispensabile l’impegno dei cittadini e della società civile organizzata al fine di spezzare la coltre della cultura mafiosa, dell’omertà, della paura e coltivare una cultura antimafiosa, della cittadinanza attiva, dell’impegno civile. Un lavoro socioeducativo duro e faticoso, svolto in passato  da realtà e persone lasciate sole e per questo più esposte alla furia omicida della mafia. Negli ultimi decenni sono stati fatti molti passi in avanti. La società civile ha cominciato a reagire, a prendere posizione, ad impegnarsi contro le mafie,  per i diritti di cittadinza, la legalità, la democrazia. E’ nata Libera, la rete di associazioni, nomi e numeri contro le mafie che svolge attività straordinarie in campo sociale, educativo, istituzionale e perfino economico. Proprio grazie alla mobilitazione di Libera e ad una petizione sottoscritta da più di un milione di persone il Parlamento ha approvato nel 1996 una legge per il riuso a fini sociali dei beni confiscati. Un provvedimento fondamentale che a distanza di 14 anni dà piena attuazione a quella parte della legge Rognoni-La Torre che individuava nell’aggressione ai patrimoni dei boss una chiave di svolta per una lotta alle mafie più efficace.

Sempre all’inizio degli anni ‘90 cominciano a nascere le prime associazioni antiracket. La prima in assoluto nasce a Capo D’Orlando, in provincia di Messina, sotto l’impulso e la guida dell’imprenditore Tano Grasso . Egli aveva capito che la mafia riusciva a dominare le vittime e a soffocare qualsiasi tentativo di ribellione grazie all’isolamento. Da qui l’idea dell’associazione antiracket per rompere il muro della solitudine, mettendo insieme gli operatori economici e sollecitando le istituzioni e la società civile a fare anch’essi la loro parte.

 

Iniziative che danno concretezza ad un concetto, quello della legalità, troppo spesso abusato nei discorsi e che pertanto rischia di apparire retorico.

La società civile e il movimento antimafia, insieme a una parte della politica purtroppo minoritaria, sono riusciti a sostanziare il valore della legalità con comportamenti, fatti ed esperienze.

Ad esempio a Corleone, in quella che per molti anni ha rappresentato nell’immaginario collettivo il cuore di Cosa nostra, decine di giovani con l’aiuto delle istituzioni locali e nazionali hanno dato vita ad alcune cooperative per il riuso sociale dei beni confiscati. Nei terreni e nelle case dei boss sorgono vigneti, agriturismo, musei … frequentati ogni anno da migliaia di giovani e cittadini che d’estate partecipano da volontari a campi di lavoro per dimostrare concretamente il loro sostegno a chi ogni giorno lavora per la legalità e lo sviluppo. Da simbolo del potere mafioso oggi Corleone è l’emblema di una città che ha deciso di ripudiare la mafia.

Sono sempre i giovani a prendere l’iniziativa nell’estate del 2004 quando la città di Palermo il 29 giugno si risveglia tappezzata di volantini e striscioni con su scritto “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. E’ la prima campagna contro il racket delle estorsioni realizzata da un gruppo di ragazzi che aveva deciso di destare l’acquiescenza al pizzo in cui erano caduti la città, i commercianti e i consumatori. Nasce così il Comitato AddioPizzo che esorta gli operatori economici a denunciare e li sostiene durante i processi, promuove il consumo critico attraverso un elenco di esercizi commerciali e imprese che non pagano il pizzo e un relativo elenco di consumatori che si impegnano ad acquistare beni e servizi da negozi e attività “PizzoFree”, svolge attività di testimonianza e di educazione alla legalità. AddioPizzo dà la spinta alla nascita nel 2007 della prima associazione antiracket a Palermo “Libero Futuro”, intitolata alla memoria di Libero Grassi, l’imprenditore siciliano ucciso da Cosa nostra nel 1991 per essersi rifiutato di pagare e aver denunciato pubblicamente il racket delle estorsioni. La moglie, Pina Maisano, da sempre impegnata in una costante opera di testimonianza e di impegno civile, ne è la presidente onoraria.

Un’attività molto importante viene svolta dalle scuole insieme alle molte associazioni che promuovono percorsi di educazione alla legalità. A tal proposito mi viene in mente un aneddoto molto significativo accaduto in Sicilia, dove qualche anno fa una donna di mafia decide di collaborare con la giustizia. Una scelta insolita quella di consegnarsi spontaneamente e di dire tutto ciò che sapeva su Cosa nostra. Cosa era successo? La figlia aveva partecipato ad un progetto sulla legalità che l’aveva portata a prendere coscienza del contesto in cui viveva e a decidere di non volere avere niente a che fare con quel tipo di realtà. E’ stata la ragazza a  dire alla madre che così non poteva andare e  metterla di fronte ad una scelta: o Cosa nostra o lei.

 

Pensa che oggi le mafie abbiano deciso di alzare il livello dello scontro? Ci aspetta una nuova stagione di omicidi e stragi?

Le mafie quando possono preferiscono il silenzio e l’inabissamento. Se decidono   di uscire allo scoperto e di scontrarsi a viso aperto con lo Stato lo fanno a ragion veduta e mettendo nel conto che una scelta di questo tipo ha sempre provocato una pesante reazione. Allora quando e per quali motivi scelgono di  aprire un fronte così rischioso?

La lotta alla mafia ha visto due svolte sostanziali. Da un po’ di tempo a questa parte in Sicilia Cosa nostra ha subìto duri colpi, ma è stata colpita anche la ‘Ndrangheta in Calabria e nel Nord del Paese. Una mafia, quest’ultima, che aveva vissuto indisturbata per molti anni e che ha proliferato affari nel traffico di stupefacenti e negli appalti,  tanto da espandere il proprio potere oltre i confini nazionali.

Dall’altro lato le indagini sulla trattativa mafia-Stato, sulle stragi e sulle collusioni mafia-politica hanno avuto una notevole accelerazione. Grazie al prezioso lavoro dei magistrati e degli inquirenti emergono trame e responsabilità più chiare e nitide: è innegabile che la strategia stragista in cui persero la vita Falcone e Borsellino rispondeva ad un livello superiore di quello mafioso militare. Inoltre, in una situazione di instabilità e vuoto politico la mafia aveva la necessità di individuare nuovi interlocutori.

Oggi come allora corriamo un pericolo altissimo. I provvedimenti del governo e il clima d’odio contro i giudici, fomentato da Berlusconi, screditano le istituzioni e rendono vulnerabili quanti si battono contro la mafia, per la legalità. Il governo la deve smettere di attaccare i magistrati e di caldeggiare leggi che indeboliscono la giustizia e la lotta alla criminalità organizzata: i tanti disegni di legge presentati per limitare l’utilizzo delle intercettazioni e per mettere il bavaglio all’informazione, grazie alle quali ogni giorno vengono arrestate decine di mafiosi e svelati gravissimi reati; lo scudo fiscale che ha consentito il rientro dei capitali dei boss in pieno anonimato; il processo breve che accorcia i tempi della prescrizione, o quello lungo per impedire che il processo arrivi alla sentenza definitiva.

La politica deve dare segnali forti di sostegno all’azione repressiva dei giudici e agli uomini delle forze dell’ordine con scelte nette e rigorose, come l’espulsione dai partiti di persone colluse e il sostegno a provvedimenti utili alla lotta alla mafia.

Bisogna abbandonare la reazione propagandistica e passare dall’antimafia del giorno dopo all’antimafia del giorno prima, fornendo alle procure le risorse umane per rimpolpare le piante organiche ridotte ai minimi termini e i mezzi e gli strumenti di cui necessitano per condurre le indagini.

 

In cosa consiste nello specifico l’antimafia del giorno prima?

Da sempre lo Stato ha combattuto le mafie solo dopo il verificarsi di fatti eclatanti, come se si trattasse di un fenomeno sconosciuto fino a quel momento, di una novità. Basti pensare che si parla di mafia già nell’inchiesta realizzata nel 1876 dai due deputati Leopoldo Franchetti Franchetti e Sidney Sonnino, mentre il reato di associazione mafiosa viene introdotto nel nostro ordinamento nel 1982, dopo l’assassinio di uno dei suoi estensori, l’onorevole Pio La Torre, e quello del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Si tratta più di una reazione dettata dalla pressione dell’opinione pubblica che dalla reale convinzione di lottare contro le mafie. Bisogna ribaltare questo atteggiamento pavido e complice allo stesso tempo. E’ ignobile e meschino continuare a perseverare. Per questo dobbiamo mettere in atto l’antimafia del giorno prima: quella che fornisce alle forze dell’ordine e alla magistratura risorse e strumenti efficaci, che approva leggi e regolamenti per impedire le infiltrazioni nella politica e nell’economia, quella che destina fondi per la ristrutturazione dei beni confiscati e per il loro riuso a fini sociali, che finanzia progetti di educazione alla legalità.

E’ l’antimafia promossa dalle istituzioni e dalla società civile che conoscono il fenomeno e decidono di intervenire per tempo, come è accaduto nella provincia di Caltanissetta. Qui dalla collaborazione tra Procura, Confindustria, Camera di Commercio, amministrazioni comunali, associazioni antiracket … è nata una rete che ha portato alla firma di alcuni protocolli di legalità e per lo sviluppo. Una sinergia virtuosa che isola chi non rispetta le regole e garantisce trasparenza.

 

Eppure a guardare la televisione e a leggere i giornali sembra che questo sia il governo della sicurezza e della lotta alle mafie.

Poi vai a vedere gli atti e i provvedimenti varati dall’esecutivo e dalla maggioranza e capisci che questo è il governo che ha fatto più danni sia dal punto di vista finanziario che dell’efficacia repressiva nei confronti del  fenomeno criminale e mafioso.

In tutte le manovre finanziarie, infatti, Tremonti, mani di forbici, non si è fatto alcuno scrupolo nel tagliare le risorse alla magistratura e alle forze dell’ordine, malgrado il centrodestra abbia vinto le elezioni, proprio caratterizzando la propaganda elettorale e politica sul tema della sicurezza dei cittadini.

Né in questi anni il Presidente del Consiglio ha avuto qualche perplessità rispetto alle continue e persistenti proposte di legge sul processo breve o sulle intercettazioni. Due provvedimenti che avrebbero potuto mettere in ginocchio il funzionamento del sistema giudiziario italiano e le attività investigative degli inquirenti. Un pericolo che fino ad oggi siamo riusciti a scongiurare.

 

Nonostante i tagli la sicurezza continua ad essere uno dei principali cavalli di battaglia del governo.

Anche dopo la campagna elettorale il centrodestra ha fatto leva sulla paura degli italiani con una squallida propaganda volta ad identificare il problema sicurezza con l’immigrazione. Per mesi abbiamo assistito a pronunciamenti razzisti da parte di molti importanti esponenti della maggioranza contro gli immigrati. Ogni fatto di cronaca veniva opportunamente mediatizzato per individuare colpe e responsabilità e creare così un capro espiatorio, un nemico da combattere su cui catalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica. Chi meglio di coloro che non hanno voce e che si trovano ai margini della società potevano occupare questo ruolo? Non ci poteva essere scelta migliore. Basta dare risalto a qualche episodio per criminalizzare un’intera categoria di persone.

Sotto questo bombardamento mediatico sono state fatte le peggiori cose: l’introduzione del reato di immigrazione clandestina, il registro dei barboni, l’obbligo per i medici di segnalare gli immigrati ai quali erogavano cure sanitarie. Nel frattempo il governo veniva travolto dagli scandali delle cricche di cui facevano parte esponenti di primo piano della maggioranza.

Scandali che hanno coinvolto esponenti autorevoli della maggioranza e del governo e rispetto ai quali Berlusconi e i suoi accoliti non hanno usato la stessa intransigenza mostrata nei confronti dell’immigrazione. Anzi hanno scatenato la loro ira contro i giudici e l’uso delle intercettazioni.

Limitare l’utilizzo delle intercettazioni sarebbe indispensabile per fare in modo che non si possa più parlare dei guai giudiziari di Berlusconi e della sua corte intenta al malaffare. In questo modo, inoltre, si farebbe un regalo alla criminalità organizzata, già favorita dallo scudo fiscale con il quale boss e delinquenti hanno potuto far rientrare i capitali portati illegalmente all’estero, con una tariffa agevolata (5%) e in pieno anonimato. Contemporaneamente si vuole mettere il bavaglio a quella poca informazione libera e indipendente rimasta nel nostro Paese per oscurare le inchieste sul rapporto mafia-politica in cui spesso ricorrono nomi come Marcello Dell’Utri e Nicola Cosentino. Non stupisce, a tal proposito, la volontà del governo di ignorare il grido d’allarme lanciato da chi combatte la mafia in trincea sulla sottodotazione delle piante organiche delle procure antimafia e sulla penuria di risorse e mezzi a disposizione. Un comportamento aggravato dall’atteggiamento ostruzionista nei confronti delle inchieste relative alla trattativa Stato-Cosa nostra e alle stragi del ‘92/’93. Basti pensare alla scelta di non concedere il programma di protezione al collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza. E cosa dire dei continui attacchi ai magistrati? Osannati quando colpiscono l’ala militare delle organizzazioni mafiose, attaccati e screditati quando si occupano delle collusioni con personaggi del mondo della politica e l’economia.

Eccola qui la politica dell’esecutivo sulla sicurezza, che si mostra forte con i deboli e debole con i forti, che smantella la giustizia per garantire l’impunità di fatto a chi non rispetta le regole, che fornisce scappatoie anche a coloro che si macchiano dei peggiori reati, che insabbia la verità, che mistifica la realtà dei fatti per ribaltare i ruoli.

Cosa ha fatto l’opposizione sul tema della sicurezza e della lotta alle mafie? Si è limitata ad ostacolare le iniziative del governo oppure ha proposto una politica alternativa?

In due anni non ci siamo limitati solo a contrastare le scelte scellerate del governo, ma abbiamo fatto diverse proposte per combattere la criminalità, affermare la legalità e migliorare la giustizia: l’introduzione del reato di auto riciclaggio e il rafforzamento dei controlli per i reati finanziari; il conto dedicato per le imprese che si aggiudicano gli appalti pubblici, in modo tale da tracciare e controllare i movimenti di denaro; l’obbligatorietà della denuncia per gli operatori economici che subiscono il racket delle estorsioni; l’inasprimento delle pene per i reati di stampo mafioso; un piano per il riuso sociale dei beni confiscati; la semplificazione dei procedimenti giudiziari affinchè i cittadini possano ottenere giustizia in tempi ragionevoli.

È questa la politica sulla sicurezza di cui abbiamo bisogno. Le politiche xenofobe, che alimentano un clima di intolleranza e paura, servono esclusivamente all’esecutivo per nascondere le sue gravi responsabilità e la sua incapacità di governare.

Andando più sullo specifico quali provvedimenti la politica deve adottare per far fare alla lotta alla mafia un salto di qualità decisivo?

Gli strumenti e le risorse per combattere le mafie non sono sufficienti. La legislazione italiana, che  pur è una delle più avanzate al mondo, ha bisogno di ulteriori misure sui fronti del racket, delle infiltrazioni negli appalti, del riciclaggio, dell’aggressione ai patrimoni dei boss. Si tratta di provvedimenti tanto semplici quanto efficaci che consentirebbero di mettere in ginocchio le organizzazioni criminali:

–           obbligo di denuncia da parte dei soggetti economici che subiscono richieste estorsive. Un provvedimento già previsto nel nostro ordinamento, ma soltanto nel settore degli appalti pubblici. Si tratterebbe quindi di estenderlo anche nell’economia privata. Oggi ci sono le condizioni per denunciare grazie alla presenza delle associazioni antiracket e all’intervento delle forze dell’ordine e delle istituzioni. Il racket è l’attività più rilevante messa in atto dalle organizzazioni criminali perché consente di reperire denaro facilmente e affermare il loro controllo e dominio del territorio;

–           ridurre il numero delle stazioni appaltanti e istituire un conto unico dedicato per le imprese che si aggiudicano gli appalti. Con il primo provvedimento sarà più semplice controllare la regolarità delle gare. Con il secondo si faciliterà il monitoraggio del flusso di denaro in entrata e uscita e il controllo della provenienza delle forniture e dei subappalti. Quest’ultimi, ad oggi, rappresentano l’anello debole della catena grazie al quale le imprese gestite dalla mafia riescono ad infiltrarsi negli appalti pubblici;

–           favorire il pagamento con denaro elettronico, imporre agli istituti bancari maggiore trasparenza, combattere i paradisi fiscali ed evitare scudi fiscali e condoni. Sono questi gli strumenti e gli ambiti di intervento per combattere il riciclaggio di denaro sporco. La tv e i media in generale ci hanno abituato a immaginare la mafia come un’organizzazione di persone rozze, incapaci di gestire grandi affari. Purtroppo non è così. Le mafie nel corso degli anni si sono evolute, cooptando al loro interno i cosiddetti colletti bianchi o instaurando rapporti organici e strutturali con settori importanti dell’economia e della politica;

–           agenzia per i beni confiscati. Una a livello nazionale e una per ogni provincia italiana. L’obiettivo è quello di semplificare le procedure e velocizzare i tempi per il riuso sociale dei beni confiscati. Non si può far passare il messaggio che lo Stato, al contrario delle mafie, non riesce a garantire la produttività dei beni, sia che si tratti di immobili che di aziende. Sarebbe una sconfitta culturale pericolosissima, oltre che economica. Proprio per questo la vendita dei beni confiscati rappresenta una scelta scellerata. Il riuso sociale è la migliore strada dell’antimafia, perché promuove nella società civile la cultura della legalità e dello sviluppo e sancisce la supremazia dello Stato sulle mafie;

–           inasprimento delle pene per i reati di mafia. Il rafforzamento del regime di carcere duro per i boss mafiosi non basta. L’applicazione del 41 bis deve essere più rigida e severa. In questo senso la riapertura delle carceri di Pianosa e l’Asinara è una strada da percorrere. I rischi ambientali paventati da chi si oppone alla riapertura dei due istituti di massima sicurezza sono infondati sia perché i detenuti potrebbero essere impegnati in lavori di cura e tutela del territorio, sia perché la presenza delle carceri preserverebbe queste due isole dal turismo selvaggio. Parallelamente è necessario aumentare le pene per tutti i reati di stampo mafioso e assicurare la certezza della pena.

Sono questi alcuni dei provvedimenti di cui avrebbe bisogno la nostra legislazione antimafia per poter riuscire a sconfiggere la criminalità organizzata nel nostro Paese.

 

Si tratta di proposte più che condivisibili che non dovrebbero trovare ostacoli, né rientrare nelle classiche  contrapposizioni di schieramento maggioranza/opposizione.

Purtroppo ognuna di queste richieste quando approda in Parlamento viene puntualmente bocciata dalla maggioranza. Una maggioranza pronta a sfruttare ogni occasione per accreditarsi agli occhi dell’opinione pubblica come il governo che ha fatto di più sul fronte del contrasto alla criminalità organizzata, ma che in Aula e nelle Commissioni fa di tutto per compromettere l’azione repressiva dello Stato. Si pensi alla legge sulle intercettazioni che limita l’utilizzo di questo strumento durante le indagini, oppure al drastico taglio delle risorse per la magistratura e le forze dell’ordine. Spesso sono i magistrati e gli agenti che si autotassano per comprare la carta o mettere la benzina nelle auto per proseguire le indagini. Le stesse persone con le quali la maggioranza si congratula nel giorno dell’arresto di un boss, il giorno dopo sono accusate di voler attaccare il governo quando indagano sulle collusioni politico-mafiose-affaristiche. Una schizofrenia di convenienza aggravata dai continui tentativi di approvare leggi ad personam che, nel solo ed esclusivo intento di risolvere i problemi giudiziari del Presidente del Consiglio, rischiano di dare il colpo di grazia alla giustizia italiana già in cattive condizioni. Solo su un punto siamo riusciti a collaborare con la maggioranza, ovvero sul rafforzamento del 41 bis, il regime di carcere duro. Una collaborazione faticosa, ma proficua che mi ha portato più volte ad incontrarmi con il ministro della giustizia, Angelino Alfano, e con altri esponenti della maggioranza. E’ questo lo spirito giusto. La lotta alla mafia dovrebbe essere un obiettivo condiviso da tutta la politica, al di sopra di logiche di appartenenza e di schieramento.

Il nostro Paese ha un grande bisogno di legalità per uno sviluppo sano. Bisogna liberare quelle straordinarie energie positive imbrigliate dall’illegalismo diffuso nella politica, nella pubblica, amministrazione, nell’economia e nella società per dare spazio alla migliore Italia.

M. Scirè